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Cristian Marchi: “Oltre gli stereotipi sul mestiere di dj” – Intervista esclusiva

cristian marchi
Il musicista, producer e deejay Cristian Marchi ci offre una visione dettagliata del suo mondo, smontando stereotipi e mostrando la dedizione, la passione e la complessità che caratterizzano la vita di un professionista.

Cristian Marchi, figura poliedrica del mondo musicale, è riconosciuto per il suo ruolo di dj, musicista e produttore. Il suo lavoro, spesso frainteso e circondato da stereotipi, merita una riflessione più approfondita per svelarne le sfumature meno visibili. In questa intervista, Cristian Marchi ci guida attraverso la complessità del suo mestiere, sfatando miti e pregiudizi che accompagnano la vita di un dj.

Il suo ultimo singolo, Late Night, nasce dalla collaborazione con il songwriter George Syle, con l'intento di creare un brano estivo, solare e leggero. Marchi sottolinea come il significato della canzone venga interpretato in modo personale da ogni ascoltatore, invitando a non fermarsi alla superficie ma a cercare un legame più profondo con la musica.

La carriera di Cristian Marchi lo ha portato a essere testimone di numerose storie nate in modo casuale durante le serate, alcune delle quali sono evolute in relazioni significative. Nonostante il suo stile di vita nomade, Marchi è riuscito a costruire una relazione stabile, sfidando l'idea che il mondo dei dj sia incompatibile con legami duraturi.

Uno degli aspetti meno noti del lavoro di un dj è l'importanza del viaggio e della logistica. Marchi descrive come l'80% del suo tempo sia dedicato agli spostamenti, piuttosto che alle esibizioni stesse, evidenziando l'erronea percezione che il suo lavoro sia esclusivamente legato al divertimento in splendide località.

Cristian Marchi ha anche affinato un sesto senso per capire il mood del pubblico e individuare potenziali pericoli. La sua lunga esperienza gli permette di gestire situazioni complesse, mantenendo la calma anche quando il rischio è elevato, specialmente quando si tratta di ego feriti o comportamenti molesti.

Del resto, anche i dj così come le dj possono essere vittime di molestie fisiche, un problema che si è acuito negli ultimi anni con la riduzione delle barriere tra artisti e pubblico. Ragione per cui Cristian Marchi enfatizza la necessità di misure protettive per prevenire tali comportamenti e garantire un ambiente sicuro per tutti.

Il percorso di Cristian Marchi è stato segnato da uno studio costante e dalla ricerca continua di miglioramento, iniziato a soli 14 anni. La sua passione per la musica lo ha portato a dedicare quotidianamente del tempo alla formazione, elemento cruciale per il suo successo.

Nonostante le difficoltà iniziali nel far accettare ai genitori la sua scelta professionale, Marchi ha seguito il suo istinto, mantenendo sempre una lucidità che lo ha aiutato a navigare nel complesso mondo della musica. Oggi, nonostante il successo, i suoi genitori faticano ancora a comprendere pienamente il valore del suo lavoro, una situazione che Marchi accetta con comprensione.

Cristian Marchi (Press: Clarissa D'Avena per Red&Blue Music Relations).
Cristian Marchi (Press: Clarissa D'Avena per Red&Blue Music Relations).

Intervista esclusiva a Cristian Marchi

“Compatibilmente con il tour, cerco di continuare a fare e produrre musica per non ritrovarmi scoperto a settembre quando la stagione estiva sarà terminata”, ci racconta come prima cosa Cristian Marchi del suo lavoro di musicista, dj e producer. “Tra l’altro, quella del 2024 si è rivelata una stagione atipica: dal punto di vista meteorologico, ha ritardato il suo arrivo portando allo spostamento o all’annullamento di diverse serate. E un evento calendarizzato che viene rimosso comporta un disagio soprattutto per il pubblico: una volta perso, difficilmente lo recupera”.

È appena uscito Late Night, il tuo ultimo singolo. Come nasce?

Nasce dal desiderio di collaborare con il songwriter George Syle per la realizzazione di quello che viene definito un brano “estivo”, ovvero solare, spensierato e non molto impegnato. Il significato alla canzone viene attribuito da tutti coloro che lo ascoltano, ognuno dei quali in base alla propria vita, alle proprie esperienze, ai propri gusti e al proprio modo di divertirsi gli attribuisce un valore. Invito sempre le persone ad ascoltare il brano per capirne il significato, senza soffermarsi soltanto sulla fonetica delle parole o del brano.

La canzone racconta di un amore improvviso e travolgente, uno di quelli in cui possiamo incappare tutti quanti durante una sera d’estate. Quell’amore che spesso può anche trasformarsi in qualcosa che da fugace fa attecchire ragioni più profonde. Da creatura della notte, sei mai stato testimone di storie nate per caso che diventano durature nel tempo?

Ho davanti centinaia di migliaia di giovani che ho incontrato nel mio percorso che potrebbero esserne l’esempio. Ci sono storie che nate come avventure hanno poi gettato le basi per relazioni più profonde. Credo da sempre che occorra andare in profondità nei rapporti e anche qualcosa di spensierato e disimpegnato può trasformarsi in ben altro: è la storia ad esempio di molti clubbers.

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Il tuo è definito spesso come un lavoro nomade: sei riuscito sentimentalmente a gettare le basi per qualcosa che andasse al di là della singola notte?

Sono l’esempio lampante che è fattibile: ho una mia relazione molto stabile che va avanti da tantissimi anni, nonostante il mio lavoro. Anche perché non tutti immaginano o sanno cosa comporti realmente la mia professione: laddove in molti pensano che si trascorrano ore e ore nelle splendide località in cui si suona, in realtà si impiega la maggior parte del tempo a spostarsi. L’organizzazione del viaggio e la logistica fanno sì che sia nomadi ma più per gli spostamenti che per il lavoro stesso.

Direi che l’80% del mio lavoro consiste proprio nel viaggio: la mia esibizione mi costa meno fatica dell’organizzazione. Per smentire quello che è a tutti gli effetti uno stereotipo, sui social ho cominciato a raccontare le back stories di ciò che faccio: per una serata a Mykonos, ad esempio, prendo un volo alle 10 del mattino a Malpensa con scalo ad Atene per avere un’esibizione alle 4 del pomeriggio, 20 minuti per una doccia e ripartire.

Il tuo è un lavoro, come si può ben immaginare, che dipende molto anche dal pubblico: è diverso da un posto all’altro. Come intuisci il sentimento di chi hai davanti?

Facendo questo lavoro da 34 anni, ho affinato un sesto sento che mi permette attraverso piccole notazioni di capire il mood della gente: mi basta incrociarne lo sguardo o la postura per individuare subito se nella confusione si nasconde un individuo tossico, una persona molesta o lo stupido della serata, colui che potrebbe mettere a rischio anche il mio lavoro. Lo dico senza alcun tipo di presunzione: anch’io come tutti ho dei limiti, cerco di mettere a frutto la mia esperienza e nella maggior parte dei casi difficilmente sbaglio una diagnosi.

Ricordiamoci pur sempre che si tratta di serate in cui non sempre la gente è in sé: si può essere alterati per mille motivi diversi, dal divertimento, dall’alcol o da altro ancora. Non sempre la situazione è totalmente sotto controllo e ciò fa sì che un dj debba sapere come schermarsi dall’eventuale pericolo perché, come si sa, nessuno a qualcosa per te tranne te.

Ci sono state situazioni in cui ti sei sentito in pericolo?

Sì. E sono state tutte situazioni in cui il rischio è stato dettato principalmente dai pericoli connessi all’ego, ciò che rovina tutti i rapporti. Quando le persone si sentono ferite nell’ego (accade quando non soddisfi una loro richiesta, dalla foto a un brano, o quando manifestano una certa gelosia per un o una partner che fa di tutto per mettersi in vista), tendono a mettersi in competizione non solo verbale ma anche fisica, lanciando sfide che oggi non raccolgo più.

In passato, poteva capitare che reagissi ma ora ho una maturità totalmente diversa ed evito ogni forma di conflitto, consapevole di come davanti a me possa avere individui poco eleganti, che non sanno esprimersi o comunicare sia per la fascia oraria sia per l’alterazione di cui prima.

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Solitamente le dj lamentano anche dei tentativi di molestie sessuali. Vale anche per un uomo? Ti sei mai sentito molestato fisicamente?

Anche, abbastanza. Fino a un paio di decenni fa, c’era maggior accortezza e si era meno spinti. Oggi invece sembra quasi normale che stando su un palco si sia vittime di atteggiamenti poco garbati o carini. Capita alle colleghe ma capita anche a noi e a favorirli è anche il fatto che non ci siano più abbastanza filtri tra noi e il pubblico: oggi vale la logica del party insieme agli altri e non c’è più quella postazione di rilievo che faceva sì che il o la dj non avesse nessuno dietro, di fianco e attorno a lui.

E se non ci sono proiezioni è normale, quando non dovrebbe esserlo, che tu venga molestato da parte di chiunque, uomo o donna che sia. Non va accettata e non va subita come situazione, per cui sarebbe sempre necessario essere in qualche modo schermati, in modo che le persone si sentano demotivate a disturbarti o molestarti.

A proposito di donne, come ha reagito il gotha degli uomini al loro arrivo alla consolle in un ambito professionale fino a non molto tempo fa prettamente maschile?

Nel momento in cui di fronte a me trovo una persona a livello culturale paritaria non ho mai opposto resistenza di fronte al suo sesso di appartenenza. Trova semmai resistenza chi si ritrova a fare un mestiere per altri motivi che esulano dalla sua competenza o dal talento. Quindi, considero un competitor solo chiunque occupi lo slot di una serata per la sua fisicità, la sua estetica o il suo bellissimo décolleté o lato b, a discapito di chi ha ben altri argomenti in ambito musicale.

Quindi, l’unica discriminante è per te il talento…

Non dimentichiamoci però che il talento è nulla senza l’opportunità: se i due presupposti non si incontrano, non si va da nessuna parte. Conosco centinaia di ragazzi e ragazze che fanno i dj ma che non hanno la possibilità di farsi conoscere perché, seppur bravi a fare prodotto, non hanno studiato e non hanno affrontato percorsi di crescita personali utili a porsi in un certo modo, a costruirsi un team o a farsi rappresentare nella maniera corretta.

Cristian Marchi.
Cristian Marchi.

Studio è una parola cruciale per tutti gli ambiti lavorativi. Quanti anni di studio hai alle spalle per fare ciò che porti avanti oggi?

Ho iniziato a studiare a 14 anni e ho continuato costantemente a fare ricerca, approfondire e a cercare informazioni utili a migliorare. Quando ho cominciato erano gli anni Novanta e, mentre oggi siamo di fronte a un eccesso di informazioni da filtrare e verificare, all’epoca avevamo il problema opposto: l’accesso alle stesse. Non ho mai smesso e mai smetterò di studiare: dedico almeno un’ora al giorno, ogni giorno, che sia in studio o in viaggio, alla mia formazione. Mi serve per lavorare meglio ma anche per completarmi come uomo e come professionista.

Cosa ti portava alla consolle a 14 anni?

Il mio motto è sempre stato “music for passion, not for fashion”: era la passione verso la musica e non la voglia di apparire, nonostante fossi a detta di tutti quello che si dice “tipo piacente”. E, poiché la mia immagine mi ha sempre preceduto, è stata qualcosa con cui negli anni ho dovuto fare costantemente i conti pagando un prezzo ancora più alto rispetto ad altri: sono state molte le volte in cui, quasi per giustificarmi, ho dovuto mostrare maggiormente le mie competenze, le mie esperienze e il mio sapere.

A condurmi verso questa professione è stata dunque la mia passione per la musica e la voglia di sperimentare attraverso essa. La radio è stata la mia prima grande palestra: mi ha dato la possibilità di cominciare a fare le mie prime serate e a quindici anni mi ritrovavo ad approcciarmi a un mondo di persone piuttosto adulte grazie per le quali ho dovuto anche farmi una cultura valida per ogni genere musicale.

L’assenza di internet, ovviamente, complicava le mie ricerche, ragione per cui usavo come fonti le videocassette ma anche le copertine dei vinili, che riportavano i vari crediti e altre informazioni che andavo a reinterpretare a modo mio, costruendomi dei miei schemi mentali sul come agire.

Cosa ti restituivano quelle prime serate?

Il piacere di esibirsi davanti a un pubblico era sempre pazzesco, incredibile. Dava un’adrenalina che non aveva pari. Quando ho cominciato a fare della musica un lavoro, lavoravo di giorno anche come elettricista. Ho smesso di farlo solo quando avevo 22 anni ma per un lungo periodo sono stato elettricista di giorno, speaker radiofonico di sera e dj di notte nei weekend: è come se avessi assaporato tre vite completamente diverse in una.

 Lavorare come elettricista per una grande azienda mi insegnava il senso della responsabilità e come pormi in maniera normale di fronte a clienti normali che molto spesso, in un contesto piccolo come la provincia di Mantova, mi ritrovavo di fronte anche durante le serate in discoteca. Forse ciò mi ha portato negli anni anche a raffinare quell’atteggiamento non da superstar ma da persona comune che svolge un mestiere comune.

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È stato poi semplice dire ai tuoi genitori che smettevi di lavorare come elettricista per dedicarti alla musica in un’epoca in cui fare il dj significava per tutti precarietà e non occupazione stabile?

Non lo è stato e nemmeno ho cercato di far capire ai miei che non era così: sarebbe stato come voler parlare a un muro. Non ho mai trovato appoggio o sostegno da parte loro. Per di più, i miei genitori erano separati e lo scoglio da superare era quindi doppio: mi ritrovavo tutte le volte a dover parlare con loro in separata sede e a dover ripartire da zero per spiegare le mie motivazioni.

Ciò che era uguale era semmai la loro reazione: trovavo sempre lo stesso punto di vista, per loro fare il dj non era un lavoro ma un passatempo inutile, un fuoco di paglia che si sarebbe spento presto, una base precaria su cui non avrei mai potuto edificare il mio futuro. Avrebbero preferito che continuassi con il lavoro di elettricista per strutturarmi nell’azienda in cui ero inserito.

Ho dovuto dunque seguire il mio istinto e la mia lucidità… lucidità è la parola giusta: non ho mai abusato di sostanze, non mi sono mai ubriacato e non ho nemmeno mai fumato. Ho condotto la cosiddetta vita dell’atleta, consapevole di quanto dovessi rimanere lucido sopra, sotto, fuori o dentro a un palco.

Hanno poi capito la tua scelta?

Quando mi sono negli anni realizzato, l’hanno in parte metabolizzata. Ancora oggi sento parlare mio padre del mio lavoro con gli amici con l’illusione che sia qualcosa affrontata in maniera ludica, nonostante le interviste, gli articoli di giornale, i remix in cima alle classifiche o le serate in tutta Europa. Probabilmente, non avendo mai partecipato alle mie serate attivamente come pubblico fa fatica a rendersi conto di ciò che accade realmente e quale sia il valore della mia professione. Non gliene faccio però una colpa: è una questione di visione ed esperienza.

Cristian Marchi.
Cristian Marchi.
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