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Antonella Ferrari: “Perché una donna con la sclerosi multipla non può essere una brava attrice e un’ottima madre?” – Intervista esclusiva

Antonella Ferrari è tornata a recitare sul set di Dante, il film del maestro Pupi Avati. Ma è un caso più unico che raro dal momento che non sono molti i provini a cui prende parte. Di ciò e di tant’altro, comprese le sue colorate stampelle e del suo “bambino peloso” abbiamo parlato in un’intervista esclusiva.

Antonella Ferrari è tornata al suo lavoro, quello di attrice. Finalmente ha avuto la possibilità di rimettersi in gioco in quello che è il suo campo, la recitazione. E l’ha potuto fare grazie al maestro Pupi Avati, che l’ha chiamata per l suo Dante, film che si è rivelato una sorpresa anche al botteghino in un momento in cui non era scontato che lo fosse.

Quella che per molte attrici rappresenta quasi un’ovvietà, la possibilità di lavorare, non lo è per Antonella Ferrari. Non perché Antonella Ferrari non ne sia capace. Non lo è per altro: senza troppi giri di parole, è il sospetto che sia discriminazione che la costringe a non mettere piede su un set. E l’esclusione ha un nome e cognome: sclerosi multipla, quella malattia che la tormenta si da quando era giovanissima e che nel 1999, dopo vent’anni di calvario, ha avuto anche un nome specifico.

La storia di Antonella Ferrari, l’attrice con le stampelle colorate, la conoscete tutti. Nel 2021, il suo monologo al Festival di Sanremo fece schizzare alle stelle l’Auditel e il giorno dopo, quei pochi che non l’hanno visto, hanno letto sui giornali la sua vicenda. Antonella Ferrari l’aveva anche raccontata in un libro, edito da Mondadori, diventato prima un best seller e dopo uno spettacolo teatrale sempre sold out, Più forte del destino.

Eppure, non è bastato questo a riaprirle le porte dei set. Nel corso di quest’intervista, Antonella Ferrari ci rivela un dettaglio importante che la dice lunga su come l’inclusione sia ancora un tema da pochi metabolizzato. Quindi, non è per meritocrazia o bravura che Antonella Ferrari non recita. No, è semplicemente per qualcosa che ancora una volta ferisce e annienta.

Ma Antonella Ferrari non è certo donna da piangersi addosso. È arrabbiata, quello sì: ma chi non lo sarebbe al suo posto? E il fatto che non si crogioli è ben evidente sin dalle prime righe che riassumono il nostro incontro. Antonella Ferrari risponde al telefono con la solarità di chi sa che deve andare avanti anche contro il mondo stesso ed è dalla sua voce squillante e allegra che nasce il flusso di pensieri che viene dopo, a cominciare dal senso di maternità riversato sul suo Grisù, un “bambino peloso” che in questi giorni ha compiuto 16 anni.

Antonella Ferrari.
Antonella Ferrari.

Intervista esclusiva ad Antonella Ferrari

Che bello sentire una voce squillante e allegra già al mattino. Solitamente uno degli scogli che per chi fa il nostro lavoro è capire l’umore della persona che sta dall’altro lato del telefono.

È vero, hai ragione. Ma solitamente tendo a essere una persona abbastanza positiva. Chiaramente ho anch’io le mie giornate no, quelle in cui anche a causa del tempo divento un po’ più triste o malinconica. Sono molto meteoropatica.

E che tempo c’è oggi a Milano?

Non dei migliori ma per fortuna non piove. C’è un po’ di luce e, quindi, è meglio di altri giorni. Sicuramente va meglio da te, a Palermo. Io adoro l’estate e il mare e la Sicilia è qualcosa di meravigliosa. Mio marito ha origini siciliane, suo padre era di Vittoria (in provincia di Ragusa) e da quelle parti si sono delle spiagge meravigliose. Devo ancora organizzarmi per una bella vacanza in Sicilia ma per farlo devo trovare il posto giusto: una spiaggia che accetta i cani. Organizzo le mie vacanze a partire da questo requisito fondamentale: solo dopo aver trovato una spiaggia privata che accetti il mio Grisù, comincio a cercare casa nelle vicinanze.

Grisù ha sedici anni ed è l’amore grande della mia vita. L’ho preso che aveva due mesi e mezzo e per me era il primo cane mentre per mio marito no. Quindi, vivo con angoscia il fatto che stia invecchiando. Quando accadrà che non ci sarà più, avrò bisogno di un periodo di lutto. Non prenderò subito un altro cane: dovrò riprendermi prima dal dolore. Mi sembrerebbe altrimenti di fargli un torto.

Pensiamo a qualcosa di bello che invece è accaduto in questo momento della tua vita. Sei tornata a recitare grazie a Pupi Avati nel film Dante. Il maestro ti ha cercata nuovamente dopo l’esperienza per la serie tv di Rai 1 Un matrimonio.

In Dante interpreto la mamma di Violante, l’unica figlia di Boccaccio, il protagonista interpretato da Sergio Castellitto. Il film racconta del viaggio di Boccaccio alla riscoperta della vita di Dante. Essendo un viaggio vero e proprio, è costellato di tanti incontri e, quindi, di altrettanti camei di attori molto bravi, da Milena Vukotic ad Alessandro Haber o Gianni Cavina. Come loro, anch’io sono presente solamente per pochi minuti, quando appunto Boccaccio viene a trovarmi per fare un regalo a sua figlia. Sono poche scene ma tra le più intense.

Ricordo quando Pupi mi chiamò e mi disse che sarebbe stato un film corale con tante piccolissime parti. “È un personaggio molto importante e molto drammatico: ci tengo che lo faccia tu”. Figurati se non ero entusiasta all’idea: oltre al privilegio e all’onore di tornare a lavorare con Pupi Avati, avrei avuto la sicurezza di imparare qualcosa. Quando si sta su un set con lui, è impossibile non farlo: come una spugna, ho sempre colto i suoi suggerimenti così come ho fatto mie le dritte interessanti che mi ha dato Sergio Castellitto. Lavorare con Avati non è come lavorare per altri registi: Pupi ti fa crescere, ti insegna il mestiere dell’attore e lo fa con grande attenzione per gli attori stessi.

È un aspetto di cui ha parlato anche Carlotta Gamba. È fondamentale sapere che esiste ancora qualcuno che abbia voglia di tramandare qualcosa agli altri. Così com’è fondamentale sapere che c’è ancora qualcuno che ha voglia di imparare su un set.

C’è sempre bisogno di imparare. Io non mi sentirò mai arrivata. Anche se ho fatto tante esperienze. Dante, rappresenta il mio debutto al cinema. Non avevo mai recitato per un film e ritrovarmi ad andare al cinema e a guardarmi sul grande schermo è stato veramente emozionante.

Ma ha anche rappresentato il tuo ritorno alla recitazione. È importante ricordare a tutti quanti che sei un’attrice.

Purtroppo, a volte, se lo dimenticano. Negli ultimi anni, prima del lockdown, mi sono dedicata moltissimo al teatro. Ho messo da parte la televisione, la fiction e tutto il resto per dedicarmi interamente alla tournée teatrale di Più forte del destino. Sono stati sei anni in cui lo spettacolo è andato benissimo, ha riempito i teatri di tutta Italia e mi ha dato grandi soddisfazioni. Ma non ho più fatto cinema o televisione. La scorsa stagione, invece, a causa del CoVid, ho fatto molta più televisione e niente teatro. Ora è arrivato il momento di rimettermi in gioco anche in televisione ma non nego che la mia più grande passione rimane il set. Io sono felice quando mi chiama un regista ma purtroppo non accade spesso perché ho la sensazione di essere discriminata. È inutile raccontarsi favole, il motivo è la mia malattia.

Quando sto sul set, mi sento meglio anche fisicamente: recitare per me è come se fosse terapeutico anche ai fini della malattia.

Antonella Ferrari

Cosa rappresenta per te la recitazione?

Ho studiato tanto per fare il mestiere dell’attrice, non mi sono improvvisata tale. Quando sto sul set, mi sento meglio anche fisicamente: recitare per me è come se fosse terapeutico anche ai fini della malattia. Non so come spiegarlo ma è come se i malesseri scomparissero. Su un set, mi sento forte, pronta, viva… e felice di fare quel lavoro.

Quando invece non mi chiamano solo perché discriminata per me è una sofferenza. Sì, mi piace andare in tv anche come giornalista e opinionista. Mi piace partecipare a programmi dove posso dimostrare le mie capacità: l’anno scorso a Detto fatto, recitavo in degli sketch con Gianpaolo Gambi inerenti al mondo della disabilità ed è stata una bellissima esperienza. Ma andare su un set rimane uno dei miei amori più grandi, insieme al teatro.

La televisione è più inclusiva rispetto al cinema?

In alcune situazioni, sì. In altre, ovviamente, no. Io sono stanca ad esempio di fare l’ospite. Vorrei un ruolo attivo che mi permetta di esserci e di fare qualcosa di inerente al mio mestiere, come l’anno scorso a Detto fatto. Dovrei adesso cominciare una collaborazione con un programma di Rai 3 che parla proprio di disabilità, condotto da Paola Severini. Però mi piacerebbe anche staccarmi un po’ dal mondo della disabilità e fare semplicemente il mio mestiere. Un mestiere che, tra l’altro, so fare.

Questo è indice della forte determinazione che ti ha sempre caratterizzata. Curi ancora la rubrica per il settimanale Chi?

Si. È una rubrica che mi da grandi soddisfazioni perché mi permette di essere sempre in costante contatto con la gente che mi vuole bene. Ricevo tantissime lettere in cui si parla di storie di storie di vita, commoventi e interessanti, che nei fatti mi insegnano moltissime cose.

La rubrica mi permette di avere una finestra sempre aperta sul mondo e ringrazio di cuore Alfonso Signorini per avermi dato quest’opportunità che va avanti da più di dieci anni. Alfonso mi ha sempre dato la libertà di scrivere ciò che voglio, non mi ha mai bloccata su nulla e per me è stato importante: mi ha dimostrato la sua fiducia. Ha una fortissima sensibilità ed è stato l’unico in un periodo per me molto delicato, non lavoravo e stavo male chiusa in casa anche per via di una recidiva della malattia, a prendere il telefono in mano e a propormi un lavoro senza tanti giri di parole, grandi complimenti o frasi a effetto. Alfonso è stato l’unico a far qualcosa di concreto mentre tanti altri parlavano, parlavano, parlavano ma non facevano nulla.

Non potrò mai dimenticare quello che ha fatto e ancora continua a fare: non mi ha mai tolto la rubrica e ha continuato a lasciarmi lavorare. Oltre che dal punto di vista psicologico, quella rubrica per me è fondamentale: mi permette di lavorare continuamente.

Hai ricordato con il tuo monologo a Sanremo quella che è stata la scoperta della malattia che per anni nessuno riusciva a individuare. E lo hai fatto mostrando a tutti il sollievo che hai provato nel dare un nome a ciò che ti faceva stare male.

La diagnosi è stata davvero un sollievo, per non dire una liberazione. Venivo da vent’anni di esami dolorosi e di ricoveri lunghissimi senza che mai si arrivasse a una diagnosi vera. Continuavo anche a sentirmi dire che ero semplicemente stressata e che avrei dovuto consultare uno psicologo. Ci andavo ma già dal primo incontro era chiaro che non era un problema di testa: c’era qualcosa di fisico che non andava.

La diagnosi è arrivata vent’anni dopo il mio primo ricovero. Finalmente ho saputo cosa avessi ed è stata una specie di momento liberatorio. L’urlo che ho portato sull’Ariston (presente anche nel mio spettacolo teatrale) è liberatorio: in quel momento ho scoperto cosa avessi, potevo cominciare a combattere ad armi pari contro il nemico. Seppur ostico e doloroso, sapevo finalmente come si chiamava.

Antonella Ferrari.
Antonella Ferrari.

Vent’anni prima quel nemico ti aveva portato a rinunciare a Chorus Line. Eri una giovane poco più che adolescente. Come hai reagito a qualcosa che non sapevo spiegarti e che non ti sapevano spiegare?

Reagii molto male all’epoca: la danza era il mio modo di comunicare con il mondo. Cadere ripetutamente durante le prove, fare figuracce bestiali davanti agli addetti ai lavori, sembrare incapace di ballare perché non mi reggevano le gambe e appendere le scarpette al chiodo è stato un dolore immenso. Se non avessi avuto grande amore per la recitazione, non ne sarei uscita così equilibrata e risolta. Grazie all’aiuto anche degli insegnanti della recitazione, ho convogliato tutte le mie energie sulla recitazione. Se non avessi avuto un’altra forma d’arte nel mio cuore, probabilmente avrei sofferto ancora di più.

Che la chiamiamo a fare? E se sta male sul set? Che ruolo le diamo? Non c’è un ruolo adatto a lei: cos’è questa se non discriminazione?

Antonella Ferrari

La famiglia ti è sempre stata molto vicina. Ma lo stesso non può dirsi dell’ambiente di lavoro.

Il mondo del lavoro si è rivelato abbastanza ostico. Alle parole, non sono mai seguiti i fatti. Sono tutti amici ma, quando si tratta di offrirmi un lavoro e di mettere alla prova la mia bravura, la malattia diventa un ostacolo. Che la chiamiamo a fare? E se sta male sul set? Che ruolo le diamo? Non c’è un ruolo adatto a lei: cos’è questa se non discriminazione?

È una situazione che vivo tutti i giorni. Si parla tanto di fiction e cinema inclusivi, in grado di rappresentare la vita di tutti i giorni. E nella vita di tutti i giorni c’è anche la disabilità. Che intensità toglierebbe la mia stampella nel momento in cui venissi chiamata per interpretare una psicologa, una mamma o qualsiasi altro personaggio?

Se un personaggio viene scritto in un determinato modo, la stampella non cambia il personaggio. Vorrei far capire questo a chi si occupa di casting, ai registi e ai produttori di fiction e cinema: se sei una brava attrice, lo sei anche se cammini meno bene di un’altra.

E, invece, no: assistiamo anche a casi per cui per un ruolo come quello della direttrice claudicante del carcere di Mare fuori si preferisce un’attrice famosa e in forma. Ma non sarebbe stato meglio scegliere un’attrice che conosce da vicino cosa significa camminare male? Potrebbe apportare al ruolo le sue sensazioni e maggiore umanizzazione del personaggio. Ma non ci hanno nemmeno pensato: perché non sono stata neanche provinata?

Questa è un atteggiamento tipicamente italiano. All’estero, in qualsiasi serie tv, si fa attenzione alla rappresentazione di ogni diversità. In New Amsterdam, ad esempio, c’è un attore affetto da nanismo che interpreta un dottore. E le sue linee narrative non riguardano di certo la sua altezza ma il suo essere medico. Se mi chiamassero per un ruolo da pm, oncologa, avvocata o via di seguito, ci si concentrerebbe sul personaggio e non sulla mia stampella. Sarebbe accessoria, un dato di fatto che non necessiterebbe spiegazioni, di cadere nel patetico o di fare del personaggio un eroe.

Si, perché, quando capita che si racconti la disabilità, lo si fa per renderci eroi o sfigati. Non c’è una via di mezzo. Io invece vorrei essere considerata una persona come tutte le altre che, con le sue abilità e le sue non abilità, può dare molto. Pupi Avati mi ha scelta per due volte e lui è solito scegliere molto attentamente i suoi attori: forse che qualcosa la so fare? Ho un curriculum che dimostra che sono una professionista seria. Vorrei essere messa in grado di farlo questo mestiere.

Non pretendo di essere chiamata a scatola chiusa o per elemosina, vorrei semplicemente che mi mettessero almeno alla prova: fatemi i provini. Provinatemi e subito dopo decidete cosa fare. Accetterei il no dopo il provino: da un punto di vista attoriale non avrei nulla da ridire. Ma se non mi fai sostenere il provino come fai a sapere che sono sbagliata?

Ho parlato di ciò in questi giorni con Simona Izzo e mi auguro che mi metta alla prova. Simona Izzo e Ricky Tognazzi sono due persone molto sensibili e belle, li reputo un esempio positivo per l’attenzione che dedicano al tema dell’inclusione. Spero che accolgano la mia richiesta: provinatemi.

Abbiamo cominciato questo nostro incontro parlando di Grisù. Cosa ha portato nella tua vita?

È stato l’antidoto contro la depressione. Ha portato l’amore e la genitorialità. Io desideravo e desidero fortemente avere un figlio. Ma questo figlio non è mai arrivato: Grisù lo ha un po’ sostituito. L’ho cresciuto con tutto l’amore di una madre che cresce un figlio.

Quando si parla di depressione, tutti tendono ad associarla come a una malattia che ha necessariamente bisogno di medicine per essere curata.

Ho vissuto la depressione, so cos’è e la conosco da vicino. Ma, anche nei momenti più bui della mia vita, Grisù è stato la luce che mi ha aiutato tantissimo. Lui e mio marito sono stati i due pilastri della mia vita.

E la maternità è al centro del tuo prossimo libro. Uscirà nei prossimi mesi ed è dedicata all’argomento e alla tua “impossibilità” di adottare. Te lo vietano nonostante tu ne abbia tutti i requisiti previsti. La discriminante è sempre la paura che la tua malattia possa volgere al peggio. Come se poi una persona di sana e robusta costituzione a cui è concessa l’adozione non possa morire improvvisamente per infarto.

E infatti è illogico. Ma la cosa ancora più assurda è che una donna con sclerosi multipla può tranquillamente avere figli. Quindi, diventare madre naturalmente per lo Stato va bene. Se vuole farlo con l’adozione, no. Mi piacerebbe fare anche un docufilm sull’argomento proprio perché mi preme molto. La mia è una malattia degenerativa che non è detto che degeneri!

Che ricordi hai invece di CentoVetrine? La soap ha regalato a tutti una certa notorietà: sei milioni di spettatori non ne perdevano una puntata.

È andata avanti per cinque anni. Ho un ricordo molto positivo legato sia ai colleghi sia agli addetti ai lavori. Sono ancora molto amica di una montatrice, con cui mi sento e vedo sempre con grande affetto. È stata una grandissima palestra: era la mia prima esperienza televisiva, venivo dal teatro e mi ha permesso di imparare molto. Mi ha per un certo periodo fatta diventare un nome di richiamo. Certo, rimane anche una certa amarezza per come Lorenza, il mio personaggio, è “morta” senza una degna sepoltura. All’improvviso, è scomparsa senza che nessuno mi spiegasse il perché.

Nella soap recitavi con la stampella.

Con due stampelle. All’epoca, me ne servivano due ma non sono entrate nella storia del personaggio. Solo una volta è stato spiegato perché Lorenza le portasse a causa della sclerosi multipla. Ma per tutto il resto della storia era semplicemente Lorenza.

Anche quando sei una donna disabile, hai il diritto di piacerti, essere vanitosa e avere un accessorio che crei indivia invece che pietà.

Antonella Ferrari

E oggi le stampelle sono al centro di un altro tuo progetto, FaFashion. Come nasce?

Le mie adorate stampelle: speriamo di farle diventare una linea, ci sto provando in tutti i modi. È nato tutto in qualche modo sul set di CentoVetrine. Un giorno, mi presentai con le mie stampelle super colorate e decorate di fiori anni Settanta. Ricordo che il regista mi chiese se avessi intenzione di recitare con quelle: “Ovviamente, si”, risposi. E da quel momento le mie stampelle sono diventate quasi più famose di me. Sono stati scritti diversi articoli e mi sono arrivate moltissime richieste per sapere come averle o dove trovarle.

Dato che in commercio non esistono, è nata in me l’esigenza di creare una linea di stampelle che possa andare incontro alle persone che non possono fare a meno di un ausilio ortopedico: in Italia, secondo le statistiche, sono circa 600-700 mila. Mi piacerebbe rendere la loro disabilità più colorata. Colorare la disabilità è la mia mission: ci lavoro da tempo, ci sono delle difficoltà logistiche ma non demordo. Anche quando sei una donna disabile, hai il diritto di piacerti, essere vanitosa e avere un accessorio che crei indivia invece che pietà.

Antonella Ferrari su Instagram: @antonellaferrari_official

Antonella Ferrari.
Antonella Ferrari.
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