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Damiana Leone: “L’ultima testimonianza sulle marocchinate del ‘44”

marocchinate del 44 film
Nel maggio del 1944 più di ventimila donne (ma anche uomini e bambini) rimasero vittima di uno dei più grandi stupri di guerra della recente storia mondiale: le marocchinate del ’44 sono ora al centro di un film diretto da Damiana Leone, che vuole essere documento ultimo e necessario su quanto allora accaduto.

Le marocchinate del ’44 è il titolo del film documentario che la giovane regista, attrice e sceneggiatrice Damiana Leone ha dedicato a una delle pagine più dolorose della recente storia italiana. Con il termine marocchinate si fa riferimento non a delle allegre scorribande di marocchini ma alle donne che dai marocchini (termine largo che fa riferimento alla popolazione nordafricana impiegata nell’esercito francese) furono ferocemente stuprate nel maggio del 1944 nelle fasi finali dello sfondamento della Linea Gustav nel Basso Lazio.

Siamo nelle zone intorno al Monte Cassino e, arrivando da sud, fin qui si spinse l’esercito coloniale francese. In un territorio già devastato dai bombardamenti e dagli scontri tra gli eserciti, l’esercito coloniale francese mise in atto uno degli stupri di massa più grandi che l’Italia (e non solo ricordi). I dati, esposti per difetto anche dal film Le marocchinate del ’44 di Damiana Leone, parlano di 20 mila donne violentate, picchiate e abusate. Al numero manca il conto degli uomini e dei bambini che mai denunciarono ciò che era loro accaduto.

Ma cosa aveva spinto l’esercito coloniale francese a un atteggiamento così truce e atroce nei confronti della popolazione locale? Il mancato controllo delle autorità fece sì che nelle truppe de goumiers prevalessero vecchi rancori e asti legati all’epoca coloniale. “Le marocchinate del ’44 sono un caso unico nella storia della II Guerra Mondiale e non solo, totalmente lontano dalla contrapposizione tra fascismo e anti-fascismo”, ha sottolineato la regista del film Damiana Leone.

“Piuttosto sono una scheggia dell’orrore del colonialismo arrivata in Italia per volontà dell’esercito francese tutt’ora non riconosciuta come Stupro di Guerra e quindi come Crimine contro l’umanità. Io lavoro sulle Marocchinate sin dal 2009, partendo da uno spettacolo teatrale (il primo in assoluto sul tema) e poi approfondendo e facendo progetti su quegli stupri, unici nel loro genere”.

La tragedia non si limitò solo lo stupro. Le marocchinate del ’44, oltre alla violazione del proprio corpo, dovettero spesso affrontare anche malattie veneree, gravidanze, pregiudizi, emarginazione e silenzio. Tutti aspetti che Damiana Leone ripercorre nel suo film Le marocchinate del ’44 con l’ausilio di quasi 30 interviste. Partendo dalla propria storia familiare (e, in particolare, dal racconto della nonna che ricorda il suo tentativo di stupro), la giovane regista passa in rassegna e tappe dalla guerra alla ricostruzione, fino ad arrivare ai nostri giorni e agli stupri di guerra contemporanei. Vengono intervistate tutte le nonne (anche quella del montatore e della direttrice della fotografia) e anche la mamma della produttrice.

Il risultato è un lavoro che affonda totalmente nel “femminile familiare” di coloro che hanno realizzato il film, dove un microcosmo diventa un'immagine del macrocosmo e della grande storia. Frutto di un lavoro durato tre anni, il film Le marocchinate del ’44 ha la voce narrante di Damiana Leone e si avvale della consulenza storica di Tommaso Baris e Fiorenza Taricone. A produrlo sono stati Mariella Li Sacchi e Amedeo Letizia di QualityFilm, con il sostegno del MIC per l’audiovisivo, il Patrocinio di Università̀ degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale. La fotografia è di Gioia Onorati, il montaggio di Giuseppe Treppiedi e le musiche di Massimo Martellotta.

Delle marocchinate del ’44, del suo film e di altro ancora, abbiamo parlato in esclusiva con Damiana Leone.

La regista Damiana Leone.
La regista Damiana Leone.

Intervista esclusiva a Damiana Leone

“Vivo a Roma ma in questo momento sono a Frosinone, dove tengo dei laboratori di teatro in carcere”, mi risponde Damiana Leone quando, come d’abitudine prima di iniziare ogni intervista, le chiedo dove si trova. L’aneddoto mi spiazza: dai suoi dati biografici mi mancava il suo impegno con il teatro sociale, ragione per cui ci ripromettiamo una nuova intervista per il racconto esclusivo di quell’esperienza. “Lavoro soprattutto con i detenuti collegati a reati di mafia (compresi i collaboratori di giustizia) ma anche con quelli più comuni e negli ultimi tempi anche con i sex offender”.

Hai appena ultimato il tuo primo lavoro da regista, il film documentario Le marocchinate del ’44, in cui si racconta una pagina di storia legata alla Seconda guerra mondiale di cui difficilmente si parla, quella legata agli stupri avvenuti lungo il confine meridionale della Linea Gustav, nel frusinate. Come è nato il progetto?

Ho iniziato a lavorare sull’argomento per uno spettacolo teatrale che ho portato in scena nel 2010, il primo in assoluto a parlare delle marocchinate. Non era mia intenzione mettere in piedi uno spettacolo che raccontasse di eventi avvenuti nella zona di cui sono originaria: a spingermi in qualche modo è stato l’incontro con Emma Dante a un seminario a cui presi parte. Emma mi chiese di dov’ero e, alla mia risposta, sottolineò come non fosse mai stata nella provincia di Frosinone. Mentre io controbattevo che non c’era nulla da dire sui luoghi in cui ero cresciuta, Emma mi spiazzò: “In ogni territorio c’è sempre qualcosa da raccontare”.

Mi mise un tarlo pazzesco nella testa: mi sentii molto in colpa e cominciai a pensare a cosa potessi raccontare Decisi allora, attraverso la storia della mia famiglia, di far luce sugli stupri che erano avvenuti per mano dei marocchini arrivati con l’esercito di liberazione francese. Mi si aprì un mondo davanti: era il 2010 e non ne aveva ancora parlato nessuno, nonostante fossero trascorsi decenni e decenni. Anche il termine “marocchinate”, con cui si indicano le donne che erano state vittime di violenza, era sconosciuto ai più.

Andai poi all’Archivio di Stato di Frosinone per visionare dei documenti: avevo incontrato casualmente un archivista che mi aveva spiegato come lì fossero conservate le denunce. E subito dopo ho conosciuto lo storico Tommaso Baris, rivelatosi di fondamentale importanza per il mio lavoro.

Eppure, le marocchinate erano state al centro di un film entrato nella storia del cinema mondiale, La Ciociara, tratto da un altrettanto fondamentale romanzo di Alberto Moravia.

Come spiega anche Baris nel mio film, quello sembra a tutti un episodio isolato: nessuno lo ricollega a quanto realmente avvenuto nella provincia di Frosinone. Quando ho portato ad esempio il mio spettacolo teatrale in scena a New York, neanche negli Stati Uniti avevano idea di quale fosse la reale entità dei fatti. A differenza di quanto avviene nel film, nel romanzo di Moravia Cesira non viene violentata ma lo è solo sua figlia Rosetta: ciò ha un valore altamente simbolico per lo scrittore perché ne fa il capro espiatorio, tanto che in un primo momento avrebbe voluto intitolare il suo lavoro Lo stupro d’Italia.

La cosa sorprendente è che nessuno aveva mai associato la storia del film a quanto avvenuto nel frusinate. C’è stato come una sorta di lavoro di rimozione anche nelle nostre stesse famiglie: io stessa disconoscevo l’entità fino a quando non ho lavorato allo spettacolo. Baris si è rivelato fondamentale perché per la sua tesi di laurea nel 2004 (divenuta poi tesi di dottorato) aveva fatto un lavoro mastodontico intervistando tantissime persone di Esperia, il paese più interessato dagli stupri. Purtroppo, quegli audio oggi sono stati trafugati da qualcuno: un gesto terribile che ha tolto la memoria a un intero paese.

I dati relativi alle marocchinate sono sconvolgenti: si stima che i marocchini (termine generico usato per indicare i soldati nordafricani presenti nelle truppe francesi) stuprarono oltre 20 mila.

È un’approssimazione per difetto usata da Baris, che da storico si basa sulle fonti certe. In tanti, asseriscono che la cifra era sia almeno il doppio. Dobbiamo sempre tenere conto delle difficoltà legate alla denuncia di uno stupro: in tante non raccontarono mai cosa era loro accaduto. Le cifre si basano sulle testimonianze che ha potuto raccogliere nel tempo l’UDI.

Non dimentichiamo, poi, che le marocchinate iniziano in Sicilia e che sempre lì finiscono… c’è un aspetto che non ho inserito nel mio documentario ma che meriterebbe un lavoro a parte. Le prime marocchinate si registrarono nella provincia di Messina, anche se è lungo la Linea Gustav che la situazione sfuggì a tutti di mano. A differenza di quanto avvenuto nel Basso Lazio, in Sicilia c’erano gli uomini a difendere le loro donne. Si ritrovarono ad esempio diversi marocchini assassinati e con i genitali tagliati e riposti nelle loro bocche, una punizione simbolica che, dal linguaggio anche mafioso, sappiamo destinata agli autori di stupri.

Gli effetti delle marocchinate tornarono nuovamente sull’isola per un’altra ragione. Dopo gli stupri, molte donne del Frusinate andarono a Vittoria, in provincia di Ragusa, dove c’era un orfanotrofio in cui, a nove mesi di distanza dal maggio del 1944, diedero alla luce i frutti delle violenze. Come racconta anche mia nonna nel documentario, non si seppe mai che fine abbiano fatto quei bambini partoriti in Sicilia e lasciati a Vittoria.

Che le donne andassero al sud non deve stupire: al Nord continuava ancora la guerra mentre la Sicilia era stata il primo territorio a essere liberato. E, in più, c’era anche un’altra spiegazione, se vogliamo, socioculturale: sull’isola, un bambino mulatto o, comunque, dalla carnagione scura sarebbe passato più inosservato. Occorrerebbe oggi fare uno studio approfondito su quell’orfanotrofio.

Tra le vittime di stupro, non ci furono solo donne ma anche uomini e bambini, su cui è più difficile fare il punto. Uno dei pochi casi documentati è quello di un prete.

Parliamo di una violenza inaudita: venne violentato per l’intera notte. Ma per un uomo era più difficile denunciare l’accaduto: il senso di vergogna per essere stato colpito nella sua virilità e identità era forse maggiore.

Il poster del film Le marocchinate del '44.
Il poster del film Le marocchinate del '44.

Le marocchinate del ’44, il tuo documentario, contiene trenta interviste diverse a uomini e donne che ricostruiscono quanto avvenuto allora. Spesso si ha anche la sensazione che ciò che raccontano in terza persona sia in realtà accaduto loro. Quanto è stato difficile convincerli a ripercorrere quella pagina di storia così dolorosa?

La sensazione è la stessa che abbiamo provato anche noi. Era un atteggiamento molto comune che ho riscontrato in alcune delle persone incontrate, alcune finite nel film e altre no. Purtroppo, molte non ci sono perché sono scomparse durante la lavorazione, protrattasi anche a causa del CoVid. Le avrei intervistate, a prescindere dal film, per lasciare le registrazioni all’Archivio di Stato.

Non è stato difficile convincerle a parlare: conoscevo già molte delle persone, sono della zona e avevo già lavorato allo spettacolo teatrale. Prima dell’intervista filmata, ho incontrato tutti quanti diverse volte non tanto per guadagnarmi la loro fiducia ma perché spinta dal desiderio di conoscere a pieno una storia molto delicata che riguardava anche me e la mia famiglia. Le marocchinate del ’44 non è solo un lavoro artistico o di testimonianza, è anche un lavoro umano su me stessa: mi ha cambiato profondamente come persona e mi ha veramente fatto capire che cosa significa essere donna.

Ho fatto un viaggio nella linea familiare femminile per andare a ripulire quel trauma. Un trauma che non è solo mio ma che è anche di diverse persone che hanno lavorato con me. Una delle attrici che si vede nelle prime scene ha avuto una zia marocchinata ritrovata morta (in condizioni fisiche che per pudore non sto a raccontare). Una delle donne intervistate è la nonna del cameraman così come la mamma della produttrice è l’amica che è insieme a mia nonna nel film. La psichiatra che compare ha scoperto casualmente che la lettera che leggo nel film l’aveva scritta sua nonna, presidente regionale dell’UDI.

Tutte le foto che si vedono appartengono alle nostre famiglie e tutti quanti abbiamo avuto una motivazione molto forte per lavorare al documentario. Non è stato difficile per nessuno: è stato un po’ un dovere farlo. Credo che anche Baris, nell’aver lavorato alla sua tesi, lo abbia fatto per lo stesso motivo, restituendo una specie di psicoanalisi anche collettiva.

La regista Damiana Leone.
La regista Damiana Leone.

Delle marocchinate si parla per la prima volta pubblicamente nel 1951 grazie a Maria Maddalena Rossi, che dava voce alle donne stuprate senza che ci fosse l’intermediazione degli uomini. Quanto pensi che sia stato fondamentale per le donne essere finalmente ascoltate?

È stato veramente un passo enorme nel processo di emancipazione femminile in Italia. Non è un caso che sia avvenuto a Pontecorvo, un paese in cui la maggior parte delle donne erano operaie e facevano le tabacchine: avevano una coscienza diversa. Le donne di Pontecorvo hanno dimostrato un coraggio incredibile e si sono rivelate fondamentali per restituire dignità alle vittime. A me colpiva come da piccola quando si accennava alle marocchinate lo si faceva con delicatezza e con un senso quasi di pietà…

Anche se l’atteggiamento della comunità era ambiguo: pietà da un lato ma anche emarginazione dall’altro.

Non dobbiamo dimenticare che oltre al disagio psicologico c’era anche un’emergenza sanitaria di cui non si parla quasi mai che durò per anni legata alle malattie veneree, dalla sifilide alla gonorrea. Non si interagiva per paura del contagio: le bambine non giocavano con le coetanee che potevano essere state marocchinate per il motivo che potessero trasmettere loro le malattia, una situazione che non faceva altro che acuire lo stato di malessere già in atto.

Anche oggi, le malattie a trasmissione sessuale rappresentano un problema enorme legato agli stupri di guerra ma rimangono, non si sa per quale ragione, un tabù da affrontare: le malattie generano epidemie che durano per anni e tra le cui conseguenze c’è anche la follia.

Quale ti auguri che possa essere il futuro del tuo film, al di là delle proiezioni nelle università o nei luoghi in cui sono avvenuti i fatti?

Stiamo lavorando per partecipare ai vari circuiti festivalieri e per la distribuzione, nelle sale o in piattaforma. Credo che sia l’ultima delle cose più complete che si potessero fare sulle marocchinate, non per presunzione ma per contezza: tra qualche tempo, i testimoni diretti saranno praticamente tutti morti. Rimarrà quindi come documento storico e punto di riferimento anche contro tutte le strumentalizzazioni.

Pesano ancora sul territorio le mancate scuse per quello che è avvenuto?

Nel 2004 sono arrivate le scuse dei rappresentati dei reduci dei marocchini ma non quelle della Francia. Ma la mancanza delle scuse non pesa oramai più.

Qual è oggi il rapporto degli abitanti della zona con i “marocchini”, termine con cui siamo soliti indicare tutti gli abitanti del Nord Africa?

Ottimo. Il mio vicino di casa, ad esempio, è marocchino e ha sposato una lontana parente di mia nonna. Ma gli abitanti non hanno mai associato le marocchinate direttamente a loro: se ripenso a quando negli anni Novanta arrivavano i primi vu cumprà d’estate, non ho mai avvertito nessun atteggiamento discriminatorio nei loro confronti. La gente non li ha mai visti come i responsabili: la responsabilità è da ricercare nella guerra, l’unica cosa che tutti si augurino non ritorni mai più. È solo chi non riesce a contestualizzare che strumentalizza l’episodio per giustificare il proprio razzismo.

Cosa pensi che la storia di quanto accaduto nel 1944 possa insegnare oggi?

Parlando con i miei meravigliosi storici, Baris e Fiorenza Taricone, ho capito che in realtà noi occidentali abbiamo talmente tanto razionalizzato la guerra attraverso la tecnologia che in qualche modo giustifichiamo la violenza che avviene tramite essa e consideriamo barbara qualcosa che invece usa armi più antiche.

Un bombardamento non è però più efferato di uno stupro: chi non ha la tecnologia a disposizione ricorre a efferatezze come le torture sui civili, sempre più estreme man mano che il conflitto si protrae. Sono l’estrema ratio a cui si ricorre quando la guerra si protrae e non si sa più come andare avanti. Più aumentano i bombardamenti e più dall’altro lato si ricorre alla violenza corporea. L’unica soluzione deve partire da una condanna assoluta della guerra, la violenza di qualsiasi tipo essa sia non è per forza l’unica soluzione.

Anche perché, come cerco di raccontare anche in Le marocchinate del ’44, la guerra è un fuoco incontrollabile che non ha confini: è come un virus che non puoi limitare, viaggio nello spazio e nel tempo in direzioni che non si possono decidere. Chi avrebbe detto ad esempio che gli effetti del colonialismo dall’Africa sarebbero giunti in Europa? Le marocchinate sono state una scheggia impazzita del colonialismo.

Le marocchinate del '44: Le foto del film

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