Storie dall’Afghanistan: la famiglia, il lavoro e la fine delle speranze di Reha Nawin

14-02-2022
Reha Nawin, attivista scappata dalla dittatura talebana e ora rifugiata in Italia, prosegue il racconto della sua vita (trovate la prima e la seconda parte qui) nel progetto editoriale di The Wom in collaborazione con COSPE, associazione senza scopo di lucro che opera in 25 Paesi del mondo per diffondere i diritti e la giustizia sociale

Negli anni in cui ho lavorato all’associazione SAAJS (Social Association of Afghan Justice Seekers), dal 2007 al 2014, ho avuto la possibilità di viaggiare all’estero: sono stata in Spagna, qui in Italia, in Germania e anche in Turchia.

Ho seguito seminari sui diritti delle donne, sulla giustizia di transizione, sul diritto internazionale penale. Ero molto felice, mi sono specializzata in questo ambito, avevo un lavoro, aiutavo finalmente la mia famiglia. Non tutto era perfetto in Afghanistan in quel periodo e dal mio osservatorio della ricerca di giustizia, sapevo bene che c’era molto lavoro da fare per togliere dai luoghi di potere e di controllo criminali, corrotti e assassini.

Sapevo bene che la presenza USA, e straniera in genere, non era la panacea di tutti i mali e che, soprattutto fuori da Kabul, le cose erano cambiate ben poco. Eppure in quel momento si avvertiva molto forte il vento del cambiamento, in termini di democrazia, di diritti delle donne e di libertà

E io ne sono un esempio. Al di là della mia famiglia, la società, sebbene con un po’ di resistenze, era pronta ad aprirsi. Le donne lavoravano negli uffici pubblici, andavano a scuola, si poteva uscire senza essere accompagnate da un uomo… Il cambiamento insomma si sentiva e ci faceva sperare in un futuro positivo.

Forse è stato troppo veloce, forse non siamo riusciti a sedimentarlo troppo, chissà. Inoltre, e l’ho vissuto sulla mia pelle, tutto questo era vero solo per Kabul e le grandi città.

Quotidianità in Afghanistan
Quotidianità in Afghanistan

Fuori, nelle campagne, questi cambiamenti non sono mai arrivati

Lo posso dire con consapevolezza perché nel 2013 dopo il matrimonio, io e mio marito ci siamo spostati a Takhar, sua città natale, in una remota provincia vicina al Tagikistan a circa 7 ore di autobus da Kabul. E lì io sono diventata “quella di Kabul”, la scostumata. Ma come sono andate le cose?

Ho conosciuto mio marito, Mohamad Anosh Hamta, nel 2010 a uno degli eventi di Hambastagi, di cui anche lui è membro e ci siamo piaciuti subito. Abbiamo cominciato a frequentarci, con il benestare della mia famiglia, ma senza nessuna costrizione. Non è stato un matrimonio combinato, cosa che nonostante tutto era ancora la prassi in Afghanistan in quel momento.

Noi condividevamo le stesse idee, gli stessi valori ed è così ancora oggi. Non mi sono mai pentita. In quel momento lui stava specializzandosi in Chirurgia Pediatrica e dopo la laurea ha fatto un concorso del Ministero della salute per andare a esercitare nella sua provincia di origine. Ed è così che siamo arrivati là.

Il suo lavoro lì era fondamentale. Era, ed è stato fino a che non siamo scappati, l’unico pediatra della provincia. Si tratta di luoghi molto poveri e con poche possibilità per le persone di studiare. Avere un medico per i bambini era davvero importante. Per lui una missione. Io ci ho messo quasi due anni ad adattarmi. Lo strappo da Kabul è stato forte.

Lì le donne non uscivano da sole, e solo con il niqab, e poi stavano a casa e non lavoravano. Per me è stato diverso, nessuno ha deciso mai per me. E io ho continuato a lavorare, figlie permettendo

Due per la precisione, una nata nel 2014, Marjan e una nel 2017, Samin. È qui infatti che nel 2015 mi ha contattato COSPE per lavorare come focal point della provincia nel progetto dedicato ai difensori e alle difensore dei diritti umani sotto minaccia, “Ahram”. Il mio lavoro consisteva nel fare seminari sui diritti umani e sui diritti delle donne, monitorare la situazione dei difensori, raccogliere richieste di aiuto, trovare soluzioni e mettere in salvo persone minacciate mettendo a disposizione case protette e saving room

Di solito erano insegnanti o giornalisti. Chiunque denunciasse pubblicamente ingiustizie, violazioni di diritti oppure la corruzione o le criticità delle istituzioni locali.

Una scuola femminile
Una scuola femminile

Inutile dire che anche io sono diventata un bersaglio: perché donna, perché attivista. Mi arrivavano telefonate anonime in cui mi si diceva di non lavorare con gli infedeli. Erano sicuramente alcuni vicini, e anche alcuni parenti. Persone vicine, per mentalità, ai talebani che erano ancora molto presenti e forti nei distretti rurali della provincia

Non mi sono mai preoccupata. Ho continuato a fare il mio lavoro sempre stretto collegamento con i colleghi e le colleghe di COSPE e il personale locale di Hawca (Humanitarian Assistance for the Women and Childern of Afghanistan) tramite cui COSPE lavorava nel paese. Io ci avevo fatto un po’ di volontariato e lì aveva lavorato mio fratello. Hawca è sempre stata un’associazione punto di riferimento per le donne e per le persone democratiche in Afghanistan.

L'uscita di una scuola femminile
L'uscita di una scuola femminile

Il mio ufficio era nella sede del Ministero per gli Affari Femminili, che faceva poco ma almeno esisteva. Oggi quel ministero è stato denominato Ministero per la diffusione della virtù e prevenzione del vizio e questo la dice lunga…

Il mio era un lavoro di protezione degli attivisti, ma anche io mi sento attivista per i diritti umani. Sono molto soddisfatta di quello che ho fatto. Ho lavorato con progetti molto forti e ho dato voce a persone che non ce l’avevano. Poter aiutare gli altri mi ha sempre dato una grande soddisfazione.  

Nel 2018 il progetto di COSPE è finito, io ho continuato a collaborare come attivista di SAAJS e a partecipare a incontri e seminari organizzati da ING straniere, come la rete Alumni degli Stati Uniti (Afghanistan New Generation Organization (ANGO)-US- Afghanistan) per rimanere aggiornata.

La situazione politica e sociale nel frattempo stava velocemente peggiorando. I viaggi verso Kabul erano sempre più pericolosi. Nei distretti rurali la guerra era già ricominciata da tempo tra i Talebani, che non se n’erano mai andati, e l’esercito governativo

Noi ne sentivamo gli echi ma non pensavamo che la guerra si sarebbe spinta in città. Poi è arrivata e noi, prima di altri, ci siamo resi conto che dopo l’uscita delle forze internazionali i Talebani sarebbero tornati come un cancro a invadere il nostro martoriato paese. 

(Segue)

Le puntate della storia di Reha Nawin:

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A cura di Pamela Cioni. Un progetto editoriale di The Wom / Mondadori Media in collaborazione con la campagna "Emergenza Afghanistan" di COSPE.

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