
Vittorio Magazzù è sul set di una nuova serie tv ma per parlare del nuovo progetto ci sarà tempo: le riprese sono appena partite e i tempi di lavorazione sono ovviamente lunghi.
Prima di allora potremmo vederlo in Maria Corleone, serie tv girata in Sicilia per Taodue – Mediaset e al cinema, dove dal 20 al 22 marzo esce come evento Headshot, ambiziosa opera prima di Niko Maggi, prodotta da Federica Folli e Pete Maggi per Cine 1 Italia e distribuita da White Lion.
In Headshot, Vittorio Magazzù trova la compagnia di altri giovani talenti come Alessandro Benedetti, Virginia Diop, Riccardo Rinaldis, Dementra Bellina, Sijia Chen e Francesco Bertozzi per una storia che ci catapulta dritti in un mondo che non sa più distinguere reale dal virtuale. E che non è capace di valutarne bene le conseguenze.
Il mondo di Headshot, un film fatto da ragazzi per i ragazzi, prende infatti vita nella realtà dei videogames. “Quello che ho voluto raccontare è la differenza tra il mondo virtuale e quello reale e il fatto che, per quanto ci si possa sentire invincibili dietro a uno schermo, la vita reale resta più cruda e concreta di qualsiasi finzione”, è quello che ha affermato il regista Niko Maggi.
In Headshot, Vittorio Magazzù interpreta B4rd, una vecchia gloria del gaming che ha visto la sua fama oscurata da un giovane che considera la sua nemesi, Chris. Determinato a ricordare a tutti chi sia il migliore nel corso di un dead match in live action, Bard dimostrerà come spesso occorre mettere da parte i pregiudizi verso l’altro e collaborare anche con il peggior nemico per salvarsi.
Reduce dal successo della serie tv Prime Video The Bad Guy, Vittorio Magazzù ha iniziato presto a recitare ma il ruolo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico è stato quello di Leonardino, il figlio della mafiosa Giulia Michelini nella serie tv, culto, di Canale 5 Rosy Abate. Un bel contrappasso per chi è cresciuto con alle spalle una famiglia di avvocati.

Intervista esclusiva a Vittorio Magazzù
Beh, in un certo qual modo, con il personaggio di Leonardino hai anticipato un po’ quello che sta accadendo oggi con i ragazzi di Mare fuori…
Ho pensato tanto a quest’aspetto: ho molti amici all’interno della serie tv Mare fuori ed è un pensiero condiviso. C’è un episodio della seconda stagione di Rosy Abate in cui finisco in carcere a Nisida sotto effetto di eroina. Ho girato delle scene all’IPM che erano molto, molto vicine a un colore che è stato poi dato alla serie tv Rai: anche in quel caso si parlava molto dell’innocenza di una persona pura che, paradossalmente, fa fronte al sopraggiungere di una certa cattiveria data dal contesto.
Anche Leonardino era un ragazzino che si è ritrovato in un contesto che lo ha trasformato non perché era cattivo ma perché respirava un aria cattiva. Un aspetto che è molto metaforico anche della nostra società: la gente è spinta ad avere un certo approccio e una certa attitudine dal contesto in cui vive. Ti riporto il mio pensiero alla mia città, Palermo: la mafia non è soltanto quella dei boss che ammazzano in mezzo alla strada ma è anche il retropensiero che determina un tuo atteggiamento nei confronti della vita.
E come i ragazzi di Mare fuori hai vissuto una popolarità esplosa improvvisamente che ti ha fatto diventare l’idolo di tante teenager…
Ma anche di tante mamme, che seguivano l’evolversi del mio personaggio da vent’anni, da quando era nato in Squadra Antimafia – Palermo oggi. Ai tempi, sono stato veramente sopraffatto non tanto dalla fama ma per l’attaccamento al personaggio: non avevo mai visto né Squadra Antimafia né Rosy Abate, la mia conoscenza al riguardo era veramente limitata e non avevo capito quanto influente fosse il pensiero che c’era dietro l’esistenza di Leonardino e quanto valore avesse per chi seguiva le serie tv con passione.
Ti stiamo per vedere ora al cinema nel film Headshot, presentato come evento nelle sale italiane il 20, 21 e 22 marzo, in cui reale e virtuale si mescolano con maestria.
Quando ho letto la sceneggiatura, sebbene io sia un millennial, ho subito pensato che il mio personaggio fosse palesemente Vegeta, l’antagonista che non può nascondere la sua passione anche a sostegno del rivale Goku.
Di cosa parla Headshot?
Headshot narra la storia di un gruppo di gamers più o meno coetanei (B4rd, il mio personaggio, è anagraficamente il più grande) che vengono reclutati per prendere parte a uno strano gioco basato su quelli di cui sono campioni online. Vengono convocati da un’associazione per partecipare a un torneo reale stile softair in un’arena di gioco piena di ostacoli e regole da seguire. Ritrovandosi all’interno dell’arena, quasi a loro insaputa, devono darsi da fare per vincere un montepremi molto alto e ambizioso mentre le loro gesta sono trasmesse online da una piattaforma. Le visualizzazioni del gioco vanno benissimo ma, a un certo punto, i gamers capiscono che non rischiano soltanto di perdere il montepremi o le vite fittizie del gioco ma la loro stessa vita: all’interno dell’arena, si cela un personaggio oscuro che comincia a prenderli di mira.
Conoscevi già il mondo dei gamers e dei deadmatch?
Pochissimo. Ho sempre giocato poco con le consolle e sempre e solo con giochi di calcio: il calcio è l’unica cosa che mi fa gasare a bestia! Riconosco però e capisco il valore degli sparatutto o di giochi simili, anche non mi sono mai ritrovato ad appassionarmi a nessuno di loro. Sin da quando sono piccolo, sono molto forte ma solo a FIFA e basta!
A calcio, mi dicono tu essere forte anche sul campo…
Ero molto forte. Mi porto ancora dietro la nome di esserlo e, infatti, spero di non deludere le aspettative quando tornerò a calcare i campi di gioco.
E come nei campi di calcio in Headshot ci si muove anche tanto… che esperienza è stata?
Essere o non essere un gamer non faceva la differenza. Il live action in cui si ritrovano i protagonisti è un’altra cosa rispetto al mondo dei giochi online. Per gli stessi gamers, essere in un’arena reale significa essere totalmente fuori dal contesto a cui erano abituati, dalla loro comfort zone. Non mi serviva dunque avere l’attitude di chi sapeva giocare online e quell’agonismo spesso insano: veniva richiesta un’attenzione diversa. Non è un caso ad esempio che B4rd, il mio personaggio, dal vivo riesca a fregare Chris, il campione in carica.
Sono contento del risultato finale e della forza del gruppo di lavoro di questo film. Sul set ha regnato la voglia di mettersi in gioco ma soprattutto l’ascolto: la recitazione senza ascolto, come a vita, non può portare dei frutti veri. E in noi c’era molto ascolto e molta voglia di far qualcosa di bello, che solitamente in Italia non si vede.
Come hai costruito il personaggio di B4rd?
Ho pensato a B4rd come a un finto duro, memore di quanto all’interno della nostra società sia facile mostrarsi duri dietro lo schermo di una console. Si tende a fare i gradassi nel virtuale ma quando ci si interfaccia con qualcosa o qualcuno a livello reale è tutta un’altra storia.
Headshot: Le foto del film
I social sono il mezzo con cui la discrepanza tra reale e virtuale raggiunge il suo apice. Che rapporto hai tu con i social?
Ne riconosco il valore, l’utilità e il peso specifico per alcuni lavori come il mio. Ma, purtroppo, non riuscirò mai avere quel tipo di approccio ai social che vedo attuare molto dai miei coetanei. Quindi, vivo con un’ambivalenza di fondo: vorrei che i miei social funzionassero di più ma per mia natura non sono portato a quel mondo lì. Sono troppo affezionato ai veri rapporti interpersonali, alle conversazioni reali, agli sguardi delle persone e al guardare negli occhi gli altri mentre parlo con loro. Vorrei fidelizzare i follower grazie al mio lavoro e non mostrando una parte spesso falsa di quella che dovrebbe essere la mia vita ai loro occhi. Se pubblico una storia per raccontare qualcosa di mio contro il mio stesso desiderio, mi sembra di prendermi in giro e di mancarmi di rispetto.
Eppure, sei un millennial, come sottolineavi prima.
Sono sempre stato negato con la tecnologia. Fino ai 14 anni sul computer sapevo usare solo Paint e Prato Fiorito! Ho imparato a usare internet tre anni fa e quando non capisco delle cose sul mio smartphone chiamo degli amici per farmi dire cosa fare. Sono sempre stato estraneo a questo mondo, anche se a Paint disegnavo da Dio e a Prato Fiorito ero un mostro ma sapevo usare solo quelle due applicazioni!
Tu hai lasciato Palermo da giovanissimo per andare a studiare recitazione a Roma. Cosa ha rappresentato per te la partenza?
Sono partito dopo aver terminato gli studi al Liceo classico Garibaldi. Partire per Roma rappresentava una meravigliosa ambizione. Il concetto di trasferimento dalla propria città spesso si accomuna a una meta che si vuol raggiungere e che poi diventa fisica. Roma è diventata concettualmente il raggiungimento di un obiettivo di carriera o di vita, anche se con il passare del tempo a livello di energie si è ridimensionata: è diventata la mia seconda casa e non la percepisco più come il sogno da raggiungere. Rispetto ad altri, però, non ero un cervello in fuga: non vedevo l’ora di andare via da Palermo per inseguire il sogno del cinema e Roma era la città giusta per intraprendere quel percorso.
Ho avuto la fortuna di avere l’appoggio immediato di mia madre e dei miei parenti. Sono riusciti a convincerli a non farmi inseguire il cinema mentre frequentavo l’Università. Ho detto loro che avrei voluto un anno di tempo per dedicarmi a una sola delle due cose: non volevo che il cinema fosse il mio piano B. La fortuna ha voluto che subito dopo l’anno di tempo venissi scelto per il mio primo ruolo, che psicologicamente ha permesso ai miei di tranquillizzarsi. Mi hanno poi visto su Rai 1 e hanno pensato che potessi davvero fare il lavoro dell’attore, non sapendo quanto studio ci fosse realmente dietro.
Studio che non hai mai lasciato…
Non ho mai abbandonato lo studio. Anche lavorando, non ho lasciato l’Accademia. Proprio all’ultimo anno è arrivato il ruolo in Rosy Abate, il mio primo da protagonista. Pian piano, ho cominciato a vivere con più maturità questo lavoro che è fatto di cicli, di momenti di attività e altri di vuoto.
E come si affrontano i momenti di vuoto?
Facendo ricerca costante su se stessi. Quello che potrebbe essere un momento di noia diventa per me un momento di grande importanza nel mio percorso.
A quali risultati ti ha condotto la ricerca?
Nella ricerca ho trovato una consapevolezza personale che si accompagna molto a quella artistica. L’attore mette la propria curiosità, il proprio sapere e il proprio essere al servizio del suo lavoro. E quando non li usa per lavoro deve utilizzarli per cercare nuovi stimoli. Ci sono molte cose che si possono scoprire per crescere e spaziare nello spirito e nel tempo. Siate sempre curiosi: interpreto così la vita, cercando di vivere il più possibile il presente e quello che mi dà. Viaggiare, mettetevi in gioco e studiate veramente: non è un caso che in latino studium vuol dire passione. Ho scoperto ad esempio quest’anno la musica: non ho lavorato per sei o sette mesi ma ho imparato a suonare quasi due strumenti, ho viaggiato e mi sono dedicato a me stesso.
In tutti questi anni, qual è stato il momento più difficile per te da affrontare?
Paradossalmente, le crescite. Crescevo io e cresceva il mio percorso di carriera. È stato difficile accettare le crescite e alleggerire il peso delle aspettative che avevo sia su di me sia sul mio lavoro. Solo quando mi son levato di dosso quel peso che avevo provveduto a crearmi da solo, ho accettato che sono un attore: questo è il mio lavoro. E ho imparato a fregarmene anche del pensiero degli altri sulla mia professione o su quanto il mio lavoro possa essere sminuito o pompato.

Mi spiazzi. Ed io che credevo che il momento più difficile fosse stato il post Rosy Abate…
Assolutamente. Per me i momenti più difficili sono quelli in cui ti poni delle domande. Sono momenti transitori e anche difficili ma che servono. Credo molto nella dialettica hegeliana: senza l’antitesi non potrai mai arrivare alla sintesi e con la sola tesi non sarai mai completo. Alla sintesi ci arrivi con la ricerca di cui parlavo prima, una ricerca fatta anche di conflitti e di scontri, di antitesi per l’appunto. Non è solo il mio lavoro che va incontro a tale processo ma tutte le cose della vita: se sei una persona curiosa, ti metti sempre più in gioco anche affrontando l’ignoto. Solo così si arriva a una conoscenza in più, a qualcosa che aggiungi che prima non sapevi.
Che giovane uomo è oggi Vittorio Magazzù?
È tutto quello che ci siamo detti finora. Il Vittorio Magazzù di oggi è un giovane uomo che ha consapevolezza di esserlo e di avere in quanto tale delle responsabilità. Ma che ha anche la consapevolezza di non voler perdere minimamente il piccolo Vittorio che è in lui. Mi piace che l’uomo che sono diventato abbia recuperato e portato avanti un punto di vista sulle cose che appartiene alla mia natura più profonda.
Pensi di avere dei conti in sospeso?
Ne ho avuti per tanto tempo per varie ragioni ma, da quando li ho affrontati, non ne ho più. Il giovane Vittorio ha capito che è molto più bello vivere la vita con un punto di vista reale e sincero senza aspettative e sovrastrutture.
E, sinceramente, quanto ci si diverte su un set come quello di The Bad Guy, la serie tv ormai cult che hai girato per Prime Video nei panni di Domenico Cuore?
Tanto, è stata una bella lezione non solo artistica ma anche di vita. Per me, ha avuto un valore enorme l’aver condiviso la scena con l’attore che mi ha sempre ispirato: Luigi Lo Cascio. Il suo nome ha sempre accompagnato il mio percorso artistico e l’ho sempre ammirato, per vari motivi. Primo tra tutti, la sua dizione: da palermitano, mi sono sempre augurato di poter parlare italiano come lui impegnandomi in tale direzione.
Per riprendere il palermitano per il personaggio di The Bad Guy ho dovuto tornare indietro negli anni e rivedere il mio percorso calcistico. Mi sono ricordato gli spogliatoi, dove a otto anni mi parlavano in dialetto senza che capissi niente. Sono cresciuto in una zona medio borghese della città, dove tutti quelli appartenenti alla mia generazione non parlano e non parlavano il siciliano.
Mi son divertito talmente tanto che forse The Bad Guy è il primo progetto che da fan avrei guardato io stesso. Non perché non mi siano piaciuti gli altri progetti ma perché all’anteprima ho provato una strana sensazione: mi sono come scordato di essere parte integrante del progetto e mi sono appassionato al racconto. Volevo vedere come continuava!
Torni spesso a Palermo? Come ti accolgono?
Torno quando serve a me o quando serve alle persone che amo. Per anni sono stato chiamato Leonardino mentre di recente mi hanno chiamato Domenico Cuore. I palermitani mi riconoscono ma sono molto rispettosi del mio lavoro: in loro, non c’è giudizio o pregiudizio.
