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Samantha Casella: “Sono entrata nella testa di una donna che ha perso un figlio” – Intervista esclusiva alla regista

Santa Guerra è il primo film diretto da Samantha Casella. Racconta il viaggio nel subconscio di una giovane donna che deve elaborare il lutto per la perdita del figlio. Tra onirismo e surrealismo. Abbiamo intervistato in esclusiva la regista

Santa Guerra è il primo lungometraggio firmato da Samantha Casella, giovane regista faentina. Il film è stato presentato con successo come evento durante il Festival di Venezia 2022 e ha colpito per la sua narrativa: non lineare, astratta ma dolorosa. In Santa Guerra, Samantha Casella affronta la storia intima e introspettiva di una donna che deve superare un gravissimo lutto: la perdita di un figlio.

L’elaborazione del dolore è affidata al viaggio che la stessa protagonista, una donna senza nome interpretata da Eugenia Costantini, affronta precipitando in un luogo senza tempo, popolato da figure spettrali. Non è facile descrivere a parole il viaggio nel subconscio messo in scena da Samantha Casella in un’opera che cita maestri del cinema come Bergman o Lynch e chiede alle sue attrici protagoniste di mettersi in gioco senza sconti.

Le dottrine orfiche, la figura della dea Ananke, l’uroboro e il viaggio nell’Ade restituiscono il tormento intimo della protagonista, un tormento che Samantha Casella ha vissuto in prima persona, come si legge tra le righe dell’intervista che ci ha concesso in esclusiva. Il trauma, dopotutto, è qualcosa che tutti noi abbiamo vissuto: la perdita di una persona cara e l’elaborazione del lutto fa parte della quotidianità di ogni individuo. E ognuno di noi ha fatto i conti con la propria mente, le proprie paure e le proprie angosce nel momento in cui qualcuno è andato via.

Tuttavia, con Samantha Casella abbiamo discusso di cosa significhi essere regista, sceneggiatrice, direttrice della fotografia e interprete di un film, soprattutto in Italia, dove tutto è sempre più complesso e non paritario.

La regista, sceneggiatrice e attrice Samantha Casella.
La regista, sceneggiatrice e attrice Samantha Casella.

Intervista esclusiva a Samantha Casella

Santa Guerra è stato presentato in anteprima al Festival di Venezia, ottenendo plausi dalla critica nonostante non si un film di facile lettura.

Il Festival di Venezia è sempre una vetrina difficile. L’ho percepito tutte le volte in cui sono stata al Lido per presentare altri lavori. Nonostante il mio film sia ostico, ha ricevuto apprezzamenti importanti.

Nonostante ciò, quasi nessuno ti ha chiesto com’è nato.

In effetti, una delle cose che non mi hanno mai chiesto è da dove è saltato fuori Santa Guerra. Da tanto tempo, sono in contatto con un altro regista e sceneggiatore, Antonio Micciulli. Ci lega un rapporto di amicizia e, considerando che alcuni dei miei cortometraggi a cui aveva lavorato anche lui erano andati bene, mi ha spinta all’idea di pensare di realizzare un lungometraggio. Createsi le condizioni ideali, Antonio mi ha fatto avere un soggetto che io ho poi sviluppato.

Santa Guerra si è sviluppato intorno a più scene decontestualizzate mentre mi trovavo negli Stati Uniti. Tornata in Italia, Antonio ogni tanto subentrava nella sceneggiatura con i suoi aggiustamenti. Ed è lui che alla fine ha ipotizzato la figura della protagonista, una donna che non riesce a superare un trauma. Ho sposato l’idea e l’ho sviluppata secondo le mie corde, immaginando il viaggio nel subconscio. Tendo ad aver bisogno di qualcuno che ogni tanto mi tenga a freno, altrimenti finirebbe che dai miei lavori si capisce ancor meno di quello che già si capisce!  Antonio è stato quel qualcuno per Santa Guerra.

Dal suo input, ho cominciato non solo a lavorarci sopra ma anche a produrre del materiale realizzando delle riprese. Tuttavia, il progetto ha assunto un’altra forma ancora quando è subentrata Eugenia Costantini. Eugenia ha alzato il livello dell’asticella e mi ha spinto a rimettere in discussione la direzione, sebbene il soggetto fosse rimasto uguale. Inizialmente, Eugenia doveva avere un ruolo paritario alle altre figure femminile. Alla fine, invece, è diventata la protagonista assoluta.

È accaduto perché Eugenia ti ha sorpresa o per altre esigenze tue?

Eugenia mi ha detto chiaramente che del film in realtà non aveva capito niente e che per tale ragione, non so perché, aveva deciso di entrare nel mio mondo. Per intenderci, anch’io ho capito certe cose del mio film durante i confronti in cui spiegavo a lei la dottrina orfica. Si è creata una magia particolare che mi ha dato il coraggio di fare il film che avrei da sempre voluto fare: dall’altra parte, avevo una persona che recepiva molto di più di ciò che lei stessa ammetteva di aver capito.

In altre parole, c’era una sorta di affinità elettiva tra voi due.

Si è creata un’alchimia speciale. Eugenia ha tantissimi pregi, tra cui quello di essere molto istintiva nella recitazione e di avere la razionalità di chi ha studiato tanto. E in più ha una sensibilità particolare: è riuscita a entrare nel mio mondo nel modo giusto. Nel film si sarebbe parlato di un lutto, anche se molte altre cose sarebbero nate in corso d’opera. Così come parte dei monologhi, scritti proprio insieme a Eugenia. Antonio è rimasto turbato da questo mio modo di procedere.

Il trauma affrontato dalla protagonista, volutamente senza nome, è il lutto legato alla perdita di un bambino. Si addentra in quello che può succedere nella testa di una madre che perde il figlio e allo spettatore non importa saperne di più su come, quando e perché questo figlio sia morto. La perdita è ciò che conduce la donna in un viaggio surreale nell’Ade. C’è uno studio apposito dietro al personaggio?

Senza passare per matta, Santa Guerra è un film per me molto personale. Ho dovuto rivangare certe mie cose. Ciò che credo che sia importante nel film è proprio la volontà di non sapere come sia morto il figlio: non contava il fatto ma solo la coscienza della protagonista e il trauma. La mia speranza è che, anche chi non riesce a seguire il film, capisca questo. I traumi appartengono alla vita di chiunque e mi auguro che in qualche modo, chi più e chi meno, possano riconoscere nella protagonista qualcosa di loro stessi.

La perdita di un figlio è qualcosa di mastodontico. Ma la domanda per me è un’altra: cosa rappresenta la perdita di qualcuno per chi resta? Non importa se sia del compagno di vita, di un cane o di qualcos’altro: la perdita è sempre un trauma insuperabile per la psiche di una persona. La psiche è un terreno difficile ma allo stesso tempo facile in cui addentrarsi: le corde che muovono le emozioni sono le stesse per tutti noi anche quando si vivono vite diverse.

Non ho condotto alcuno studio psicologico prima delle riprese. Mi interessava più il risvolto filosofico e mitologico della vicenda. Ecco perché ho approfondito tutto uno studio sulle dottrine orfiche e su tutto ciò che rappresenta il personaggio di Ananke. Ananke era la dea della Necessità e la donna protagonista ha la necessità di rivivere il suo trauma a modo suo. Forse nemmeno lei si ricorda chi era, com’è morta la sua creatura, se l’ha uccisa, se ha abortito o se ha commesso qualche errore.

Per chi non le conoscesse, cosa sono le dottrine orfiche?

Sono ovviamente legate alla figura di Orfeo e, quindi, al suo desiderio di fare un viaggio nell’Ade per recuperare Euridice. La protagonista di Santa Guerra è al tempo stesso Orfeo ed Euridice ma è anche tutte le altre figure femminili che si vedono: sono tutte sue proiezioni e diversi modi di elaborare il lutto.

Le dottrine orfiche erano legate al concetto di tempo. La dea Ananke pare che fosse nata dall’unione del tempo con un serpente, animale che è il simbolo dell’infinito.

Da un punto di vista cinematografico, sono alti i riferimenti, a partire da quelli a Ingmar Bergman. E mi sembra di capire che non è dettato da un capriccio momentaneo.

Bergman è stato il mio primo amore cinematografico. Mi si è incastrato nel cuore da bambina dopo che mi sono imbattuta per caso in Luci d’inverno. Non sapevo di chi fosse il film, ovviamente, ma cominciai a cercare informazioni sui giornali che, nel pubblicare i palinsesti, scrivevano anche chi fosse il regista. Mi sono segnata il nome e, quando ho avuto i mezzi per approfondire, sono andata a cercarmi chi fosse Bergman e tutto ciò che aveva fatto. Sono consapevole che non potrò mai arrivare ai suoi livelli ma m’ero ripromessa che nel primo film che avrei fatto (potenzialmente anche l’ultimo) lo avrei citato e gli avrei reso omaggio.

Santa guerra: Le foto del film

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È un caso che ti sia ritrovata a dirigere nello stesso film Eugenia Costantini ed Elena Quartullo, le figlie di due attrici come Laura Morante ed Elena Sofia Ricci?

È stato veramente un caso. Essendo stata molto negli Stati Uniti ultimamente, sapevo poco del cinema italiano degli ultimi quattro anni. Conoscevo ovviamente Laura Morante ma non sapevo che Eugenia fosse sua figlia, anche perché non ha puntato la sua carriera nello sbandierarlo ai quattro venti. Idem per Emma: potevo arrivare al padre dal cognome ma non al fatto che era la figlia di Elena Sofia Ricci.

Quindi, non le ho scelte per quello. Per me, basilari erano i volti. Nel caso di Emma, mi occorreva qualcuno che emanasse qualcosa di completamente diverso da Eugenia. E così è stato: sono entrambe due attrici molto belle ma la loro bellezza è diametralmente opposta. Emma, poi, essendo più piccola, emana un’innocenza particolare e ha quella freschezza che combaciava con il mio modo di vedere le cose.

Accanto a lei recita anche Ekaterina Buscemi e in un cameo Maria Grazia Cucinotta.

Ho scelto Ekaterina per il suo volto molto incisivo e il suo talento espressivo. Mi piaceva l’idea di crearle due look del tutto differenti, uno sdoppiamento vero e proprio. E Maria Grazia è stata scelta perché da ragazzina mi aveva fatto sognare: Il postino. Anche se molti la vedono con l’allure da diva, per me è sempre stata la protagonista di quel film che mi aveva colpito. A me lei sembra un volto molto potente come Moira. Così come sono potenti anche le altre due “moire”, Simona Lisi e Chioma Ukwu. O come la cartomante Isabella Tedesco. Sono molto contenta del cast!

Tolta la figura dell’attore Diego Pagotto, Santa Guerra ha un cast quasi tutto al femminile. Tratta una tematica femminile, anche se definirlo così è riduttivo per quanto ci siamo detti. Ed è diretto, coscritto, interpretato e fotografato da una donna. Quanto è difficile per una donna fare un film in cui ricopre quattro ruoli fondamentali davanti e dietro alla camera?

In generale, penso che fare cinema sia più faticoso per una donna. Santa Guerra mi ha preso due anni di vita, anche se credo che sarebbe successo la stessa cosa anche a un uomo. Sono stata però anche molto fortunata nell’aver trovato gli incastri e gli incontri giusti: tendo probabilmente ad attirare o avere a che fare con persone positive. Le persone negative tendono a starmi alla larga a prescindere!

Da donna, è stato difficile curare la sceneggiatura e la regia, mettersi in gioco come attrice e occuparmi della fotografia, qualcosa che avevo in parte studiato ma di cui non avevo mai avuto alcuna esperienza. Ma è stato Micciulli che ha insistito affinché curassi io le atmosfere del film, un compito che ho preso con una certa responsabilità. Ma, ripeto, anche un uomo avrebbe incontrato le mie stesse difficoltà.

E tu hai anche studiato parecchio prima di esordire alla regia.

Ho frequentato la scuola Holden a Torino. Ho seguito i corsi di Sceneggiatura e Tecnica Narrativa. Tuttavia, quando si è aperta la possibilità di fare un master di tre anni in scrittura, sebbene avessi un buon punteggio, non sono riuscita ad accedervi. Provi a far regia, mi hanno detto. L’ho vissuta inizialmente come un fallimento e ho vissuto la mia bella crisi. Mia madre ha trovato però un volantino della Scuola Immagina di Firenze, gestita dal regista Giuseppe Ferlito, e mi ha inviato a provarci.

E a Firenze sono rinata. È stata uno dei migliori della mia vita. Per prima cosa, per l’entusiasmo che Ferlito riesce a trasmettere. Bisognava entrare nel suo mondo, non proprio lineare, ma ho imparato lì a fare qualsiasi cosa. Talvolta, uscivo da scuola anche a mezzanotte: ho praticamente vissuto lì dentro due anni interi. È stata la mia seconda casa.

E cosa ti ha portata negli Stati Uniti?

È un po’ difficile da spiegare. Avevo realizzato già diversi cortometraggi e documentari che però non avevano mai coinvolto troppo la mia emotività. E ciò mi aveva frenata. Ho solo fatto una pausa: cercavo una strada più difficile per ricominciare, qualcosa di lontano dalla mia comfort zone che mi permettesse di mettermi in gioco. In Santa Guerra ho tirato fuori qualcosa che non mi faceva stare bene prima. Potrà esserci chi non lo capirà, è giusto ed è il prezzo da pagare: quello di non essere compresi.

Cosa non ti faceva stare bene?

Non è importante cosa. L’importante è sempre capire perché ci fa stare male.

Samantha Casella.
Samantha Casella.
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