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Romana Maggiora Vergano, il domani di una giovane donna di oggi – Intervista esclusiva

Romana Maggiora Vergano
Nel primo film da regista di Paola Cortellesi, Romana Maggiora Vergano interpreta la figlia della protagonista, un’adolescente di ottant’anni fa la cui voce ha bisogno di essere ascoltata. Abbiamo incontrato l’attrice per conoscere il suo percorso e capire chi è, tra pubblico e privato.

“Ho avuto difficoltà quando mi chiedevano del finale perché comunque rovina la sorpresa al pubblico”, è la prima osservazione che mi fa Romana Maggiora Vergano quando sin da subito le chiarisco che non spoilereremo il finale di C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi in sala dal 26 ottobre per Vision Distribution in cui interpreta Marcella.

La Marcella di Romana Maggiora Vergano,romana nata nel 1997, è la figlia della protagonista Delia (interpreta dalla stessa Cortellesi) che, nella Roma del 1946, viene definita non in quanto donna ma in funzione del ruolo che ricopre in una società ancora fin troppo patriarcale e maschilista, ovvero quello di moglie di un energumeno manesco e padrone (Valerio Mastandrea) e di madre di tre figli di varie età. Siamo in una delle tante borgate che all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale provano a rimettersi in piedi tra difficoltà contingenti e problemi di assestamento anche emotivo.

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Dopo tanti ruoli in piccoli ma deliziosi film (come Gli anni belli o Come le tartarughe della brava Monica Dugo), Romana Maggiora Vergano è chiamata a mettere in scena un complicato rapporto madre e figlia in un’opera che si disvela in tutta la sua potenza sul finale. “Un finale che nemmeno noi attori conoscevamo: ci è stato dato solo il giorno in cui l’avremmo girato per creare aspettativa anche in noi attori. È la prima volta che mi capitava su un set: abbiamo avuto tutti la stessa sorpresa che avranno gli spettatori”, ci confessa Romana Maggiora Vergano, “un finale che ridà senso a tutto ciò che si vede e che a prima vista potrebbe essere una storia anche ordinaria”.

Romana Maggiora Vergano.
Romana Maggiora Vergano.

Intervista esclusiva a Romana Maggiora Vergano

Al di là della conclusione, C’è ancora domani è un film che, seppur ambientato nel 1946, ha un’eco che arriva fino a oggi grazie alla riflessione che innesca sulla condizione femminile e sul gender gap. Da giovane attrice, avrai provato sulla tua pelle tante volte tale divario: vieni pagata meno dei tuoi colleghi uomini, il tuo nome viene sempre dopo e ti muovi in un ambiente che è per definizione stessa maschio.

Da questo punto di vista, stiamo vivendo in un momento molto positivo: dobbiamo aggrapparci a ciò che c’è di buono e cavalcare l’onda. Sostanzialmente non ci manca nulla, come viene dimostrato continuamente in questi giorni rispetto ad altre realtà del mondo.

Amo molto i film che presentano protagoniste che non sono necessariamente legate agli uomini… ed è forse questo il problema maggiore del cinema non solo italiano. Troviamo spesso storie femminile ma le protagoniste rimangono quasi sempre legate a un uomo e descritte in sua funzione. Nelle narrazioni, c’è la donna madre di un figlio maschio, la donna che è moglie, la donna che è dipendente di un capo maschio o la donna che è amante di un maschio sposato: tutto è declinato in funzione del maschile.

A tal proposito, ho letto un articolo in cui si asseriva che un vero film femminista o comunque femminile deve avere al suo interno almeno un dialogo in cui la protagonista parlando con un’altra donna non citi un maschio o una situazione legata a un uomo. Ha cambiato totalmente il mio punto di vista, facendomi guardare i film con personaggi femminili in un’ottica differente. Proprio per questa ragione mi auguro che ci siano sempre più film che diano risalto alle donne con la stessa caratura artistica di C’è ancora domani.

C’è ancora domani riesce a essere tante cose insieme senza mai perdere il punto di vista della protagonista Delia: dramma, commedia, musical se vogliamo (in alcune sequenze terribili di violenza domestica trasposte con delicatezza e poesia) e film sociale. Com’è stato farsi dirigere da Paola Cortellesi?

Il 2023 è stato per me l’anno delle registe donne: ho cominciato con Monica Dugo, ho continuato con Paola Cortellesi, ho appena finito di girare con Francesca Comencini e ho avuto anche un piccolo ruolo in La storia, la serie tv diretta da Francesca Archibugi. E sto per iniziare due nuovi progetti al femminile, di cui ancora non si può dir nulla, con altre due registe.

È stato molto bello lavorare con ognuna di loro ma con Paola in particolare: è una donna veramente incredibile, che non si ferma mai e che sa fare tutto con una semplicità e una generosità invidiabili. Sul set, è stata una madre fantastica, in cui credo ha riversato anche alcune delle sfumature che penso abbia anche nella vita privata con sua figlia, come il suo essere premurosa, attenta e non rigida. Dal primo momento in giravamo, ho avuto il sentore che il film fosse dedicato alla sua Lauretta: si vedeva che era mossa da un amore grandissimo non solo verso l’arte. Ho evinto la sua generosità sin dal primo provino, tant’è che se non mi avesse scelta sarebbe stata per me una delusione più personale che professionale: avrei perso l’occasione di farmi guidare da lei e di conoscerla meglio.

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C’è ancora domani ti porta a recitare nei panni di una ragazza di ottant’anni fa. Hai avuto difficoltà nell’entrare nei panni di Marcella?

All’inizio, ho pensato: “Che bello, finalmente un’adolescente degli anni Quaranta!”. Mi sono sempre sentita sbagliata in quest’epoca e, forse, quegli anni avrebbero potuto essere i miei. Passato l’entusiasmo iniziale, ho dovuto fare i conti con cosa significasse essere una giovane donna di quel periodo.

Mentre leggevo il copione, andavo a pranzo dalla nonna del mio compagno, che è stata adolescente proprio negli anni Quaranta: mi ha fatto vedere tantissime foto, mi ha raccontato altrettante in storie e in lei ho rivisto un po’ Marcella. Come Marcella, anche lei dopo la scuola elementare non aveva potuto continuare con gli studi (privilegio riservato solo alle ragazze di buona famiglia) ed era stata mandata alla scuola di avviamento sia per avere un mestiere in mano sia per portare un po’ di soldi a casa.

Ciò mi ha spinto a ragionare seriamente su alcuni aspetti. È stato un po’ un trauma realizzare che ho sempre dato per scontato la possibilità che ho avuto e che hanno tutte le ragazze della mia età in Occidente oggi: è un diritto che sottovalutiamo ma che per tanto tempo non è stato tale. Ho dovuto quindi immaginarmi una ragazza che, giovanissima, si barcamenava tra l’aiutare la madre nella gestione della famiglia e della casa e l’andare a lavorare in stireria per guadagnare del denaro da consegnare al padre… soldi che non può usare nemmeno per raggiungere una sua indipendenza.

Marcella come tante altre ragazze avrebbe voluto studiare. Chissà cosa avrebbe in realtà voluto fare e a cosa l’avrebbe portata: probabilmente non si sarebbe nemmeno fidanzata con Giulio (Francesco Centorame), il figlio di una coppia di borghesi, come invece accade nel film… perché, comunque, lo studio le avrebbe aperto altre possibilità o interessi. Non so cosa avrebbe fatto ma sono sicura che non sarebbe rimasta in quella casa e a quelle condizioni.

È un tema che possiamo traslare a tutte le ragazze di oggi che, a non chissà quanti chilometri di distanza, non sono nemmeno libere di uscire di casa come realmente vogliono.

Ed è la violazione di un diritto inconcepibile. In una scena del film, Giulio, toglie dalla bocca il rossetto che Marcella s’era messa per piacergli di più. In quanto giovane donna, in quel momento, mi sono sentita violata già solo nel mettermi nei panni di una donna che non è libera. Mi ha fatto riflettere come, al di fuori dei confini del nostro Paese, alle donne non solo viene tolto il rossetto ma anche la vita stessa: mi ha generato dolore ma anche grande rabbia.

Di fronte a immagini che arrivano dal Medio Oriente, ad esempio, ci si sente impotenti e spesso anche in colpa per non poter materialmente far nulla: ci si sente privilegiati solo per aver avuto semplicemente la fortuna di nascere in un luogo diverso, in una famiglia diversa e con delle leggi, belle o brutte che siano, differenti. C’è ancora domani parla anche di ciò, di libertà personale e di come tutelarla ma anche di amore, di amor proprio e di autodeterminazione.

Marcella va, comunque, incontro a un’evoluzione, soprattutto in merito al rapporto con la madre Delia. In un primo momento, la tratta male come tutti gli altri non esitando a umiliarla sia sottilmente sia esplicitamente. Sul finale, però, uno sguardo silenzioso tra le due rimette in ordine tutto quanto.

Quando ho letto il copione ero un po’ spaventata dai modi con cui Marcella si rivolge alla madre, aggressivi e verbalmente cattivi. Riusciamo a giustificarla facendo appello alla tua età, che le fa vivere felicità e rabbia in maniera esponenziale non riuscendo a trattenerle. In realtà, le parole di Marcella sottendono all’amore immenso che nutre per la madre: intravede in lei del potenziale e i margini di una svolta importante che le permetterebbe di salutare una vita non decorosa. I suoi attacchi sono un modo per aprirle gli occhi su cosa le sta accadendo e per spingerla a svegliarsi dal torpore in cui vive. Tutto ciò emerge poi nello sguardo finale, quello di due donna che provano amore e stima l’una per l’altra: in quell’attimo, Marcella si rispecchia nella madre…

Il suo comportamento di prima è dettato anche dalla paura di fare la sua stessa fine e che, inconsciamente, a un certo punto sembra anche fare: siamo tutti bravi a dire all’altro dove sbaglia e a mostrargli la realtà ma siamo più limitati e abbiamo maggior difficoltà a farlo quando si tratta di noi stessi.

Soprattutto, quando in ballo ci sono i sentimenti…

È vero che C’è ancora domani è un film che parla di violenza e di abuso di potere sulle donne ma, guardandolo per la prima volta, ho realizzato che è anche un film che parla d’amore, dell’amore sano che vince, dell’amore di un’amica (Marisa, Emanuela Fanelli) nei confronti di un’amica in difficoltà, dell’amore di uno spasimante (Nino, Vinicio Marchioni) che sceglie di corteggiare una donna con rispetto anziché con la prepotenza e dell’amore di una madre per i figli. E di amor proprio: sono tanti gli esempi di amore che porta, un sentimento che dobbiamo condividere, tutelare e nutrire continuamente.

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Gianmarco Filippini, Paola Cortellesi, Romana Maggiora Vergano, Mattia Baldo e Valerio Mastandrea in
Gianmarco Filippini, Paola Cortellesi, Romana Maggiora Vergano, Mattia Baldo e Valerio Mastandrea in C'è ancora domani.

E amore è quello che hai personalmente respirato in famiglia. Cosa hanno pensato i tuoi genitori, che fanno un lavoro totalmente differente del tuo, quando hai scelto con autodeterminazione e consapevolezza di cominciare il tuo percorso di attrice?

Avevo molta paura di confidar loro il mio desiderio di recitazione. Tant’è che per tanti anni l’ho represso: ero una ragazza molto studiosa al liceo, molto disciplinata, e credevo che avrei fatto il medico come i miei genitori. Mi ero anche messa a studiare per il test di ingresso a Medicina: finita la maturità, mi preparavo verso quello che pensavo sarebbe stato il mio futuro con il teatro relegato al ruolo di hobby. Quando si è avvicinata la data del test, ho sentito però che mi dovevo fermare: non dovevo farlo perché la mia strada era un’altra.

È stato allora che ho avuto il coraggio di fare outing con i miei genitori. Ho sempre pensato che mi volessero medico come loro e, invece, mia madre in particolare si è sentita sollevata: la sua è una professione sfibrante, massacrante ed emotivamente molto difficile, che necessita di vocazione. Non averla, a detta di lei, significava vivere una vita d’inferno. Con mio padre, invece, è stato un po’ più complicato: avevo maggior timore nel confessargli il mio sogno e c’è voluto più tempo per fargli capire che ce l’avrei fatta…

Era come se dovessi rassicurarlo con la mia determinazione, un tratto del mio carattere che mi ha sempre accompagnata. Ho sempre pensato di dover portare a casa dei risultati per essere accettata o stimata dai miei genitori: è solo crescendo e conoscendoli meglio che ho capito che erano tutte congetture che la mia mente si costruiva… in qualche modo, sono stata io a giudicarmi per prima. È stato andando via di casa che ho visto cambiare il mio rapporto con loro: ho smesso di vederli attraverso le loro funzioni sociali e ho cominciato a guardarli come persone e identità singole con le loro fragilità e debolezze.

Le funzioni sociali con cui etichettiamo tutto quanto sono in realtà un limite: non ci permettono di vedere la verità dei rapporti umani. Non bisognerebbe limitarsi ai pattern prestabiliti o impostati per retaggio ma occorrerebbe fermarsi ad ascoltare l’altro prima di noi stessi.

Tu hai anche un fratello gemello che nella vita fa tutt’altro. Com’è stato crescere con una figura accanto che costantemente muoveva i suoi passi insieme ai tuoi?

Essere gemelli è qualcosa che ti porti dietro per tutta la vita e non potrebbe essere diversamente: per nove mesi si condivide una pancia e ci si nutre della stessa sostanza della stessa persona, nello stesso liquido. Io e mio fratello siamo stati un po’ la stessa persona e nessuno dei due ha mai vissuto un rapporto esclusivo con coloro che ci hanno generato. Abbiamo sempre diviso e condiviso tutto fino a quando non è arrivato quel momento in cui entrambi, per desiderio di autodeterminazione, volevamo essere l’uno più importante dell’altro agli occhi dei genitori o dei professori.

Non potrò mai scordare il momento in cui ho capito di appartenere a un genere diverso da quello di mio fratello. Da bambini, avremmo potuto essere due maschi, due femmine o la stessa identica cosa. Ho realizzato di essere io una femmina e lui un maschio quando le mie amichette hanno cominciato a venire a casa mia a giocare con me per vedere lui. È stata per me una bella sofferenza, per cui ho cominciato a odiarlo (ride, ndr).

Terminato il periodo di conflitto e capendo di voler prendere percorsi diversi, ci siamo ritrovati e oggi ci completiamo a vicenda. Sebbene lui abbia scelto di fare il medico, nel tempo libero suona la chitarra e compone e produce musica, coltivando un suo lato artistico, mentre io continuo a mantenere un sentimento sociale e umano molto sviluppato che mi porta a praticare volontariato nel tempo libero, interessandomi alla parte scientifica e psicologica dell’essere umano.

Un po’ come lo yin e lo yang…

Anche perché abbiamo anche colori differenti: da eterozigoti, ci differenziamo fisicamente. Ma rimane in noi quel legame magico che ci lega. Confermo la leggenda per cui uno dei due sente quando l’altro sta male: nel nostro caso, è realtà. È capitato più volte che mio fratello mi chiamasse all’improvviso e mi chiedesse delle mie condizioni quando a me era appena successo qualcosa. Al di là di chi entra o esce dalla mia vita, mio fratello sarà sempre la mia certezza: è una sorta di proseguimento di me e io sono un proseguimento di lui.

Romana Maggiora Vergano.
Romana Maggiora Vergano.

Sei andata via di casa nel momento in cui hai scelto di far l’attrice. Qual è la difficoltà maggiore che hai incontrato nel farlo?

Sono andata via di casa perché ne ho sentito la necessità e sono anche stata fortunata perché ho avuto la possibilità economica di farlo: per tanti, è questa la vera ragione che fa da freno. Non mi sono posta tante domande perché avrei rischiato di cambiare idea di fronte anche alle esigenze che mi attendevano, dalla lavatrice all’affitto da pagare qualora non avessi lavorato. Non ho nemmeno dato peso all’eventuale reazione dei mie genitori: molti miei coetanei hanno timore di uscire dal nido per non far soffrire i genitori o farli sentire inconsciamente in colpa.

Superato l’entusiasmo di casa nuova, sono però arrivate le paure contingenti e la nostalgia: avrei dovuto pensare a tutto io, dall’arredamento alla spesa a cosa mangiare o a che ora. Dovevo comunque ricostruire il concetto stesso di casa, quel posto sicuro in cui tornare la sera. Ed è allora che è cominciato quel processo di rivalutazione del mio essere figlia: anche quelle che in passato erano le domande scomode o invadenti dei miei si sono trasformate in segnale di amore nei miei confronti. Ecco perché bisogna sempre assecondare le evoluzioni: quando arriva il momento, bisogna anche buttarsi… si pensa dopo ai problemi.

Nel tuo caso, buttarsi significa anche iscriversi a una scuola di cinema, la Gian Maria Volonté. La tua decisione ci porta a una riflessione sull’essere attore: serve lo studio?

Evitiamo subito l’equivoco di pensare che gli attori veri siano solo quelli che studiano. Secondo me, tutto dipende dalle occasioni che la vita ti pone davanti. Probabilmente anch’io, se avessi avuto una grande occasione recitativa durante gli anni del liceo, non so se avrei poi frequentato la scuola. È andata però diversamente e, finito il liceo, sentivo la necessità di dover formarmi per fare questo lavoro come lo intendevo io: mi serviva per stare tranquilla e affrontare il set come si deve.

Sono un’iper perfezionista (in questo mi sono ritrovata molto con Paola Cortellesi) che lavora fino allo sfinimento e, quindi, non avrei mai potuto cominciare non frequentando una scuola. Per me, ha significato portarmi dietro un bagaglio da aprire nel momento in cui mi sento in difficoltà: oggi so che posso aprirlo e trovarci dentro quello che mi serve. La formazione mi ha fatto sentire più sicura, è quella copertina di Linus invisibile a cui ricorrere per affrontare il set e gestire non serenità gli eventuali problemi che possono venirmi incontro.

Chiaramente, per far l’attore non serve solo la formazione. Non potrà mai sostituire un talento, un intuito o una determinazione: devi averle con te prima di iniziare un percorso di studio. Il talento, come dice un attore visto di recente in un documentario che racconta il lavoro del casting director (figura riconosciuta finalmente in Italia anche con il David di Donatello), è il perfetto collante tra il lavoro, lo studio e la paura dell’ignoto sul set.

Romana Maggiora Vergano
Romana Maggiora Vergano

Ricordi ancora il primo giorno in cui ti sei ritrovata davanti la macchina da presa?

Lo ricordo molto bene perché è stato quello che in realtà, inconsciamente, ha fatto maturare il me il desiderio di rinunciare a una carriera da medico. L’estate dopo la maturità ho avuto la mia prima esperienza sul set di Immaturi – La serie, in cui avevo un ruolo molto piccolo. Era poco più di una figurazione speciale ma mi ha dato modo di fare tante esperienze sul set: anche se avevo poco spazio, ero molto presente visivamente perché ero una delle compagne di classe dei maturandi.

Non avevo un arco narrativo importante e potevo quindi permettermi anche di distrarmi dal mio lavoro di attrice: passavo molto tempo dietro al monitor e ho ancora impressa l’emozione provata per la prima volta per un cambio di fuoco in una scena senza un dialogo articolato ma con molto sentimento. Mi sono venuti i brividi nel vedere due attori alternarsi ognuno con una sua evidente verità da mettere in scena: il cambio di fuoco ha fatto arrivare ciò che dalla sequenza doveva arrivare. Ed è lì che ho realizzato quanto il cinema sia una macchina a 360° in cui ognuno gioco un ruolo determinante: presenza e il lavoro dei tecnici sono determinanti quanto quelli di un attore… un film non può funzionare se una delle tue parti non funziona.

Cosa deve avere una sceneggiatura di interessante affinché tu dica sì a un ruolo?

Da emergente, non mi sento ancora libera di dire di no, anche se ne ho già detto qualcuno. Per me, fondamentale è il poter lavorare con persone che stimo, per cui tendo sempre a informarmi prima sul regista o sulla produzione. Ma anche la sceneggiatura: non tutti possiamo interpretare tutto. Per far un buon lavoro, devi sentirti addosso il personaggio… è ciò che mi porta a scegliere personaggi che hanno qualcosa che risuona in me e che si relazionano con personaggi ancora più interessanti del mio. Un po’ come accaduto in C’è ancora domani: il personaggio di Delia resterà iconico. È una donna a cui non è mai stata data voce ma che con il suo gesto finale pone le basi per un nuovo inizio, per quel domani del titolo.

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C'è ancora domani: Le foto del film

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