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Paolo Briguglia: “La paura di soccombere ai miei limiti interiori” – Intervista esclusiva

Paolo Briguglia
Protagonista insieme a Giuseppe Fiorello della serie tv di Canale 5 I fratelli Corsaro, Paolo Briguglia si racconta in maniera inedita a The Wom. Dalla sua Palermo a quel lato femminile che ha imparato ad amare, ripercorre le tappe che lo hanno portato a essere oggi uno degli attori più apprezzati di oggi.

Paolo Briguglia, attore di rara sensibilità e profondità, è tornato a Palermo con I fratelli Corsaro, la serie tv di Canale 5 di cui è protagonista con Giuseppe Fiorello, che lo ha riportato a casa, non solo fisicamente, ma anche emotivamente. Questo ritorno, a lungo termine e profondamente significativo, rappresenta per Paolo Briguglia una riconciliazione con la sua città natale, da cui partì giovanissimo per intraprendere gli studi di recitazione.

Dopo aver interpretato ruoli emblematici come nel film I cento passi o nella serie tv Il cacciatore, Paolo Briguglia si cimenta ora con una Palermo diversa, lontana dagli stereotipi di mafia, restituendo al pubblico una visione solare e più autentica della sua città. Non è la Palermo macchiata dal sangue di Cosa Nostra, ma un luogo dove la vita scorre tra sfide, passioni e speranze, un aspetto spesso trascurato dalla narrazione mainstream.

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La sua carriera è caratterizzata da una costante tensione verso la verità e l’autenticità, valori che Paolo Briguglia cerca di trasmettere in ogni sua interpretazione. Il legame con Palermo non è solo professionale, ma profondamente personale: tornare a recitare nella città da cui fu costretto a partire per studiare è stato un viaggio di riscoperta, sia della sua terra che di sé stesso. La serie I fratelli Corsaro ha richiesto un impegno a lungo termine, permettendogli di immergersi nuovamente nella lingua, nelle cadenze e nei ritmi della vita palermitana, regalandogli una nuova prospettiva sulla sua identità artistica e sulle sue radici.

Non è però solo l'amore per la propria terra a definire la sua carriera. Paolo Briguglia ha sempre dimostrato una straordinaria versatilità, passando con naturalezza da ruoli drammatici a interpretazioni più leggere, come nella commedia Basilicata Coast to Coast. La sua capacità di muoversi tra generi diversi è frutto di un percorso artistico in cui la dedizione e la curiosità lo hanno sempre accompagnato. Ogni progetto per lui è un’opportunità di crescita, e non è raro che Paolo Briguglia si ritrovi a riflettere sui valori umani più profondi attraverso i personaggi che interpreta. Il suo Roberto ne I fratelli Corsaro è leale, appassionato e innamorato, tre qualità che Paolo riconosce anche in sé stesso, soprattutto nel rapporto con la sua famiglia, un pilastro fondamentale della sua vita.

Oltre alla sua vita professionale, Paolo Briguglia è anche padre di due figlie, un ruolo che lo porta a confrontarsi quotidianamente con nuove sfide. L’osservazione delle dinamiche familiari e il suo stesso vissuto di fratello, sia maggiore che minore, arricchiscono la sua comprensione della complessità delle relazioni umane, qualcosa che riesce a trasporre in maniera autentica anche nel suo lavoro. Attento osservatore della realtà che lo circonda, Paolo Briguglia è profondamente consapevole delle pressioni che le giovani generazioni, e in particolare le ragazze, subiscono oggi, in un mondo che tende a mercificare l’immagine femminile. Questo lo rende un padre premuroso e un attore sensibile ai temi sociali, valori che cerca di trasmettere anche attraverso le storie che sceglie di raccontare.

Oggi, nonostante il momento di grande visibilità che lo vede protagonista su diversi fronti televisivi, Paolo Briguglia rimane umile, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e progetti che possano sfidare la sua crescita professionale. Non si è mai considerato un attore “arrivato”, e continua a lavorare con lo stesso entusiasmo e la stessa passione di quando iniziò, portando avanti quella che per lui non è solo una carriera, ma una missione: raccontare storie che possano far riflettere, emozionare e, in ultima analisi, aiutare a comprendere meglio l’animo umano.

Paolo Briguglia (foto: Valentina Glorioso; Press: Lorella Di Carlo).
Paolo Briguglia (foto: Valentina Glorioso; Press: Lorella Di Carlo).

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Intervista esclusiva a Paolo Briguglia

I fratelli Corsaro ti ha dato l’opportunità di tornare d’attore a Palermo, la stessa città da cui sei andato via per studiare recitazione. Che effetto ti ha fatto?

Non è la prima volta che torno a Palermo per lavoro: sono tornato spesso per diversi film. Ed è una dinamica che nella mia esistenza si ripete in continuazione: da Il manoscritto del principe, il film di Roberto Andò che ho girato da giovanissimo subito dopo l’Accademia, a I cento passi, passando per tanti altri film sulla mafia, come ad esempio Falcone con Massimo Dapporto, e quella bellissima serie tv che era Il cacciatore o gli impegni con il Teatro Biondo per tantissime produzioni.

Il continuo ritorno è stato dunque un punto fermo nella mia vita. Tuttavia, le riprese per I fratelli Corsaro mi hanno richiesto di rimanere in città per un periodo molto più lungo rispetto ai miei lavori precedenti e ciò è stato un modo per riconciliarmi ancora di più con la città da cui sono stato costretto a partire. Quando devi andar via per lavoro o studio a 19 anni com’è capitato a me, da un lato è sicuramente bello perché apre la strada alla tua avventura formativa ma dall’altro lato ti fa provare un sentimento di rabbia. In quel momento, mi sono chiesto perché fossi costretto a farlo o non potessi rimanere dov’ero. Mi sarebbe piaciuto ma le mie esigenze mi portavano ad andare fuori.

Tornare per la serie tv e rimanere per più tempo mi ha fatto anche riavvicinare al modo di parlare dei palermitani, a una cadenza più simile al reale di quella tante volte invece esasperata dai racconti. Mi sono impegnato in qualcosa di inedito per me proprio perché mi piaceva l’idea di poter restituire la verità: è stata un’esperienza che definisco di riconciliazione, non ci sono altri termini per descriverla.

La Palermo raccontata da I fratelli Corsaro non è quella macchiata dal sangue della mafia: è una città solare, in cui accadono delitti su cui indagare ma che esula dal racconto stereotipato che è stato fin troppo visto e rivisto in tanta televisione e cinema. Quanto per te è importante che una storia si allontani dal già detto?

Erano anni che riflettevo su quanto sarebbe stato bello realizzare una storia d’amore o una commedia ambientata a Palermo, con la città a far da sfondo naturale a qualcosa che non fosse solo mafia. È sì doveroso raccontare certe vicende ma allo stesso tempo è fonte di dispiacere non permettere alla città di mostrarsi per quello che è, anche nella tragedia: l’essere umano deve continuare a vivere e a sperare, a mostrarsi propositivo e pacifico. E la Palermo del racconto di questa storia lo dimostra: sono felicissimo di avervi preso parte e che questi aspetti vengano fuori.

Roberto da te interpretato è uno dei due fratelli protagonisti. Se dovessi descriverlo con tre aggettivi, quali sarebbero?

Roberto è leale, è una persona appassionata al suo lavoro ed è innamorato.

Aggettivi che possiamo cucire addosso anche a Paolo Briguglia?

Beh, sì. Sono leale nelle relazioni umane e, in primis, in quelle familiari, non solo nei confronti di mia moglie ma anche verso i miei fratelli, i miei genitori e i miei parenti. La lealtà concede la possibilità di parlare, di dirsi anche delle cose spiacevoli e di confrontarsi: serve a far crescere i rapporti. Penso che uno dei capisaldi della vita sia avere rapporti sani innanzitutto con i tuoi familiari e con tutta la cerchia di persone che man mano si allarga, arrivando agli amici cari e alle persone che conosci. Se non coltivati con la lealtà, i rapporti non crescono nel tempo.

Ma sono anche innamorato. Non solo di una donna ma della vita in generale: coltivo dentro me una sentita gratitudine verso tutto ciò che faccio tutti i giorni. Ritengo quasi un dono la possibilità di innamorarsi di ciò che si vede delle persone, di un progetto, di qualcosa.

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I fratelli Corsaro: Le foto della serie tv

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Sei fratello anche nella vita reale, dove hai dovuto far sia da fratello minore che da fratello maggiore. Qual è stato tra i due il ruolo più pesante da portare sulle spalle?

Come in tutte le famiglie, i fratelli da piccoli litigano. Ed io ho litigato molto con mio fratello maggiore per motivi di territorialità, per gli amici o per gli oggetti che avevamo in casa. Quindi, ho sicuramente avuto conflitti con il fratello più grande di me, una dinamica che spesso interessa solamente i primi due figli: è naturale che il primo si senta minacciato dall’arrivo del secondo e che implicitamente si difenda e difensa quel piccolo mondo che era stato tutto suo, l’affetto del genitori. Sono stato però fortunato: ho avuto delle relazioni familiari molto sane e anche oggi ho un legame bellissimo con i miei fratelli.

Da figlio, hai vissuto in prima persona la fratellanza. Da padre, invece, vivi da vicino la sorellanza tra le tue figlie. Osservando loro, hai notato differenze di dinamiche relazionali? C’è qualcosa che distingue i legami tra fratelli dai legami tra sorelle?

I rapporti tra fratelli sono molto improntati alla fisicità. Molte volte, quando si litiga, ci si picchia nel vero senso della parola: ci si mette le mani addosso, ci si rotola per terra e ci si ferma solo quando si sente che si sta per fare davvero male. Mio fratello, per esempio, era molto fisico e forte: nonostante mi buttassi su di lui con tutte le mie forze, gli bastava anche un 40% delle sue per spezzarmi eventualmente un braccio e ne era consapevole.

Anche le mie figli litigano moltissimo ma lo scontro fisico non va mai oltre il graffio o il pizzicotto. Ciò che è cambiato rispetto a quand’ero io ragazzino è dettato semmai dalla presenza degli smartphone, mezzi spesso deleteri che mettono i giovani a contatto con realtà talvolta inadatte a loro. Scrollando, si imbattono in contenuti di ogni tipo e già a 12 anni le mie figlie si chiedono come truccarsi o pettinarsi.

Seppur in preadolescenza, sono diventate un territorio di conquista per grosse società che ruotano attorno alla bellezza e all’esteriorità e che infondono in loro insicurezza proponendo modelli da emulare spesso lontani dal reale da cui non possono proteggersi. Ed è qualcosa che trovo terribile, che mi preoccupa e che mi fa soffrire molto. Parliamo molto di femminismo e di lotta al patriarcato ma poi si cade sempre nel modello della donna oggetto rendendo insicure delle bambine quando invece dovremmo tutti quanti in sinergia prodigarci per difendere l’immagine della donna, per aiutarle a vivere in un mondo ancora fin troppo maschile e per spingerle a trovare autostima, forza, coraggio e carattere.

Quando hai spiegato loro il lavoro che faceva papà?

Non c’è stato un momento preciso: è qualcosa che è successo gradualmente. Capitava che fossero testimoni di qualcuno che per strada mi fermava per farmi i complimenti o che qualcun altro dicesse loro di aver visto un film con il loro papà. È stato allora che in maniera molto naturale ho cominciato a far vedere loro qualche mio lavoro. Non tutti, ovviamente: i film in cui recito spesso contengono violenza o raccontano di storie molto impegnative.

Un amore quello per le storie che ti accompagna da sempre…

Non mi reputo un essere straordinario nel far l’attore. È un lavoro che porto semmai avanti con amore e dedizione perché sono consapevole di quanto sia anche civilmente importante. Per me, è fondamentale condividere le storie: tra attore e spettatore si instaura un processo di comprensione e trasmissione di cui entrambi sono parte integrante.

Da sempre, gli esseri umani si ritrovano intorno alle storie per elaborare il presente, pensare e capire. Ed io da sempre ho portato avanti la mia professione con tale spirito, anche quando ho recitato in commedie come Basilicata Coast to Coast, dove la risata era sempre un mezzo che permetteva di parlare dell’essere umano. Forse è tale concezione che provo a trasmettere alle mie figlie.

Quand’è stato invece il momento in cui tu, guardandoti allo specchio, ti sei detto che eri un attore?

È qualcosa che è ancora in divenire. Sono sempre stato per indole un passo indietro, un po’ insicuro: penso sempre che gli altri facciano meglio di me, che siano più bravi o che siano più forti in quello che portano avanti. Ancora oggi lavoro per costruire in maniera sempre più solida il senso della mia identità professionale ma anche personale.

Giusi Battaglia e Paolo Briguglia in Ci vediamo al bar.
Giusi Battaglia e Paolo Briguglia in Ci vediamo al bar.

Anche ora che ti vediamo non solo ne I fratelli Corsaro ma anche in I Leoni di Sicilia e presto in Brennero, oltre che come conduttore del programma Ci vediamo al bar con Giusi Battaglia? Come vivi questo momento di presenza quasi massima in tv?

Ovviamente, è una coincidenza che si ritrovino in ona tutti questi miei lavori nello stesso tempo. Ed è anche strano che sia accaduto: Brennero, dopotutto, doveva andare in onda prima ma è stato poi rimandato ad adesso; I Leoni di Sicilia, dove interpreto Ignazio Florio, è già stato visto su Disney+; e Ci vediamo al bar arriva in tv con la sua seconda stagione a pochi mesi dalla sua realizzazione tra maggio e giugno…

Fa un po’ impressione la concentrazione ma, quando mi impegno in un lavoro, non sto a chiedermi quali effetti avrà su di me o cosa mi porterà: per me, l’importante è farlo e al meglio. Chiaramente, sono poi contento se il prodotto è ottimo e se sortisce un effetto positivo sul pubblico. Quand’ero più giovane, mi dicevano spesso “Vedrai che salto che farà la tua carriera con questo film” ma poi la vita faceva sì che accadessero cose che andavano in altre direzione, ragione per cui ho imparato a sganciare del tutto la causa dall’effetto: do semplicemente tutto me stesso sul lavoro ma mi distacco completamente dal risultato o dalle aspettative sullo stesso.

Eppure, da giovane, dopo il liceo classico avevi cominciato a studiare Lettere moderne all’Università di Palermo. Qual è stato lo switch che ti ha portato a dire basta al percorso universitario e a prendere in mano quello che era per te allora un sogno?

Studiavo Lettere ma nel frattempo continuavo a studiare anche Teatro. Avevo conosciuto degli insegnanti dell’Accademia Silvio D’Amico che, nel vedermi al Teatro Biondo, avevano visto del me del talento, invitandomi ad andare a Roma senza nemmeno bisogno di fare il provino. Andai ma selezionato. Per un periodo, mi ritrovai a studiare sia per l’Accademia sia per l’università ma era complicatissimo: quando riposavo dalla D’Amico, preparavo Latino da sostenere come esame.

Per quanto fosse un’occasione unica confrontarsi con Ovidio e la sua metrica, mi sentivo sempre con un piede a destra e uno a sinistra. Fino a quando non capii che anch’io dovevo fare il grande salto e considerare, come si faceva già nelle scuole di teatro in Europa, la recitazione un mestiere: dovevo investire tutto in quel lavoro. Dissi basta, lasciai l’università e con coraggio affrontai la mia scelta.

Una scelta facile da comunicare ai genitori? Se parti da Palermo, hai in gergo sportivo un meno uno da rimontare.

È vero che noi siciliani partiamo da possibilità formative e lavorative limitate ma è anche vero che sin da piccoli siamo abituati a fare il doppio della fatica rispetto agli altri proprio perché non abbiamo niente. Se n’è accorto anche mio fratello che fa il medico in ospedale: quando è andato finalmente a lavorare fuori, si è reso conto della quantità di cose in più che sapeva fare rispetto agli altri. Ed è ciò che ci rende più forti lontani dalla nostra terra, tanto che non ho mai considerato uno svantaggio partire dalla Sicilia, anzi: è stato come se sentissi una forza interiore maggiore dal provenire dalla mia terra, un grandissimo orgoglio.

I miei però ci tenevano tantissimo al raggiungimento della laurea. Mia madre insegnava Diritto del Lavoro alla facoltà di Economia mentre mio padre era ingegnere e insegnava anche lui a scuola: per loro, l’università era il mondo che più ben conoscevano. A un certo punto, mi è toccato spiegare loro che comunque l’Accademia era equiparabile all’università, che il diploma era come una laurea e che quella era la mia scelta, non potevo far diversamente: “Chissà, magari in futuro”… Ogni tanto mi si chiede ancora perché non mi laureo ma a che mi servirebbe, senza voler screditare un’istituzione che certamente conferisce prestigio?

Paolo Briguglia nella serie tv Brennero.
Paolo Briguglia nella serie tv Brennero.

Brennero, in tv dal 16 settembre, ti ha permesso di cimentarti in un ruolo complesso.

Considero Brennero come la vetta del mio percorso: hanno chiesto a me di fare un provino, che poi ho vinto, per il ruolo del serial killer… a me, che ho sulle spalle una tradizione di bravo ragazzo, di buono, di fratello, di persona comunque cara. L’ho considerato come un grande regalo della vita, un traguardo professionale. Gli sceneggiatori sono stati in grado di costruire un personaggio del tutto alieno da me, animato da sentimenti oscuri e violenti. Ed è stato un viaggio bellissimo da affrontare.

Fabrizio Ferracane, altro attore palermitano avvezzo a ruoli da cattivo, ci ha raccontato che per interpretare un personaggio oscuro e violento occorre fare appello anche ai propri angoli bui.

Il turning point, il punto di svolta, nell’approvazione del Mostro che interpreto è stato un giorno mentre sul set camminavo nel corridoio di un albergo gigante. Improvvisamente, si sono spente le luci e sono rimasto completamente al buio e, come tutti, ho avuto paura… quella stessa paura atavica che l’essere umano prova quando si ritrova senza luce e teme di poter essere vittima di qualcosa. È stato lì che dentro me è scattato quel qualcosa che mi ha spinto a dire che non avrei dovuto avere paura: ero io a doverla semmai incutere.

Ciò che stavo sentendo dentro me è quello che il mio personaggio avrebbe dovuto suscitare negli altri. E ho allora cominciato a muovermi in quel buio in maniera diversa, quasi vivendo con grande gusto l’idea di poter fare male a qualcuno: l’attore mentalmente è portato a fare delle capriole incredibili e io ho realizzato per la prima volta in quel frangente cosa sia incutere terrore attraverso la violenza.

È chiaro che nessuno di noi ucciderebbe o farebbe del male a qualcuno se non in condizioni estreme: chi lo fa, è spesso sospinto da motivi personali o perché comunque vittima di qualcosa o di un’ingiustizia, reale o percepita come tale, che lo ha deprivato della propria serenità, forza o equilibrio. Tutti noi, se ci pensiamo, abbiamo vissuto qualcosa che ci ha ferito, dalla gelosia per un fratellino al furto di un oggetto a cui tenevamo, e che ci porta a un desiderio di riequilibrio: l’attore deve semplicemente scovarlo dentro di sé, amplificarlo e con il gioco dell’immaginazione trasformarlo anche in qualcosa di enorme o terribile.

Tu di cosa hai paura?

Ho paura del male che le persone ti possono fare e di quello che arriva all’improvviso. Mi spaventano tutte le storie di cronaca con protagonisti ragazzi che muoiono perché qualcuno fuori di testa ha afferrato un’ascia o una pistola per ammazzarli senza motivo in mezzo alla strada. Ma la paura mia più grande è quella di soccombere a tutti i miei limiti interiori, a quella voce che tutti quanti abbiamo dentro e che ci dice che non ce la faremo o che non siamo bravi abbastanza.

Hai da poco compiuto cinquant’anni, un’età spartiacque nella vita di un uomo, di bilanci e di ripensamenti. Hai raggiunto i traguardi che ti prefiggevi a diciannove anni?

Non avevo un traguardo e non ne ho tuttora nessuno. Ogni volta che termino un lavoro, lo considero come un capito chiuso e desidero far qualcosa di nuovo, che però non è ben definito nella mia mente: non è il voglio recitare l’Amleto o voglio diventare chissà chi. Mi piace vivere la vita giorno per giorno: anche quando nella mia mente si affacciano pensieri su quello che sarà, li spazzo via subito perché la vita per me è qui e ora, non so cosa accadrà tra cinque minuti. Forse è l’aver raggiunto tale consapevolezza un bel traguardo.

Quello che so è che i miei cinquant’anni, quando sono arrivati, sono stati una grande batosta e non me l’aspettavo. Improvvisamente, ho realizzato di aver vissuto più della metà della mia vita, per cui tutto ciò che voglio fare non è più da rimandare al futuro. Sono nel pieno delle mie energie creative e delle mie forze, ho maturato una grandissima esperienza e, quindi, posso lanciarmi nelle mie tante idee, anche troppe.

Cos’è la solitudine per un attore?

Quello dell’attore è un lavoro contraddistinto da forti flussi e reflussi. L’onda, così come arriva, si ritira e ci si può sentire davvero abbandonati da tutto e da tutti, anche da chi fino al giorno prima condivideva con te lo stesso set e ti diceva di essere bravissimo. La solitudine è una condizione che ogni attore sperimenta, anche quello più famoso e affermato, e devi tenerla sempre in considerazione e ricordartela: devi sapere che è una parte importante del lavoro e che ti farà sentire solissimo.

Anche se, nel mio caso, tra moglie e figlie non è facile: sono sempre immerso nella confusione (ride, ndr)! La mia è una battuta per sottolineare come comunque considero il lavoro solo una parte della mia vita: c’è poi tutta quella dimensione meravigliosa che trovo quando arrivo a casa, dove sono un papà che ha come priorità crescere le figlie e trasmettere loro un senso di futuro.

L’essere circondato da donne ti ha aiutato a trovare quel lato femminile che è insito in ogni uomo?

La mia parte femminile è molto sviluppata. All’inizio, quando l’ho scoperta, ci facevo un po’ a pugni. Per educazione o per retaggio, era come se provassi sofferenza di fronte a questo aspetto di me. Ma alcuni ruoli, come quello interpretato nel film Malarazza della persona transgender, mi hanno permesso di scoprire quanto bellissimo fosse lasciarlo trasparire. È stato un viaggio lento e progressivo che però mi ha portato a far pace con quel mio lato, ad apprezzarlo e anche a sostenerlo, senza più censurarlo.

Paolo Briguglia
Paolo Briguglia (foto: Valentina Glorioso; Press: Lorella Di Carlo).
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