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Michele Di Mauro: “Recitando, ospito in me umanità diverse” – Intervista esclusiva

Michele Di Mauro
L’uscita in sala del film Non morirò di fame, dramedy sullo spreco alimentare e sul rapporto padre-figlia, ci porta a incontrare Michele Di Mauro mentre vive un periodo florido della sua carriera. Protagonista della serie tv Sky Call My Agent Italia, racconta del suo mestiere, faticoso, e del suo essere uomo.

Michele Di Mauro è il protagonista del film Non morirò di fame, in uscita al cinema da metà febbraio distribuito da La Sarraz Pictures. Diretto da Umberto Spinazzola (regista di Masterchef), Non morirò di fame racconta la storia di Pier, un ex chef stellato che vive ai margini della società. Dopo aver abbandonato tutto e tutti, Pier è costretto a ritornare a riallacciare i rapporti con la vita di prima in seguito alla morte dell’ex moglie. Si ritroverà così a gestire il difficile legame con la figlia adolescente e a iniziate un nuovo percorso di riavvicinamento al cibo attraverso un viaggio nel recupero alimentare.

Due sono dunque i grandi temi che il film Non morirò di fame affronta: lo spreco alimentare, da un lato, e la relazione padre-figlia, dall’altro. In questi giorni in onda con la serie tv Call My Agent Italia, dove interpreta l’agente Vittorio, Michele Di Mauro nel film di Spinazzola è Pier, colui che ha scelto consapevolmente una vita da clochard dopo aver conosciuto l’ebbrezza di una stella Michelin.

Ed è dal film Non morirò di fame che siamo partiti per quest’intervista in esclusiva a Michele Di Mauro. Sulla scena come attore, doppiatore e regista teatrale da quando era poco più che un ragazzino, Michele Di Mauro ha al suo attivo numerosi ruoli in film e serie tv italiane, più nelle seconde che nei primi, come direbbe lui stesso. Il suo volto è presente in prodotti di successo come L’allieva, Non uccidere, Studio Battaglia e I delitti del BarLume. Eppure, è solo dopo tanti anni di comprovata bravura che sta vivendo un periodo particolarmente florido.

Non lo chiamiamo fortunato. Per Michele Di Mauro quello dell’attore è un lavoro che è fatto di impegno, lavoro e fatica, ma che è anche in balia delle mode, delle tendenze e dei gusti culturali di un Paese. Ama definirsi operaio dello spettacolo, sempre pronto a mettersi al servizio del progetto e all’intera comunità che vi ruota intorno.

Raggiungiamo Michele Di Mauro mentre è alle prese con lo spettacolo teatrale Romeo e Giulietta, la prima regia di Mario Martone per il Teatro Piccolo Strehler di Milano. Debutterà il 2 marzo per poi rimanere in cartellone per un intero mese.

Michele Di Mauro (fotografa Erica Fava, production & styling Romina Piperno, grooming Giorgia Pa
Michele Di Mauro (fotografa Erica Fava, production & styling Romina Piperno, grooming Giorgia Palvarini @ Simone Belli Agency, location Vasta Studio Milano, shirt Bottega Veneta).

Intervista esclusiva a Michele Di Mauro

Torni in questi giorni al cinema con un film che ti vede protagonista assoluto Non morirò di fame di Umberto Spinazzola. Si affronta un tema su cui tutti siamo chiamati a riflettere: lo spreco alimentare. Chi è Pier, il tuo personaggio?

Pier è un ex chef stellato che per il suo atteggiamento e un gesto un po’ folle che è meglio non spiegare cade in disgrazia. Fugge via dall’Italia, dalla sua famiglia e dal suo lavoro e per un periodo di tempo vive di espedienti, conducendo una vita da clochard. Se vogliamo, è come se avesse smesso di vivere. Tuttavia, è costretto dalla morte della moglie a rientrare e a confrontarsi con ciò che aveva lasciato, un lavoro mandato a stendere e quello che resta della sua famiglia. Deve fare i conti soprattutto con sua figlia, un’adolescente che ha appena cominciato a frequentare il liceo e che lui aveva abbandonato con molta facilità.

Ed è da questo momento che inizia il film Non morirò di fame. Il ritorno mette Pier di fronte alla sua vita passata, presente e probabilmente futura attraverso il recupero degli scarti alimentare. Mi piace usare il verbo recupero perché è fondamentale per raccontare la sua storia: oltre al recupero in senso alimentare, c’è anche il recupero dei sentimenti e dei rapporti con chi gli sta intorno. E ad aiutarlo nel suo recupero c’è un’altra figura, un altro clochard, il Granata, interpretato da Jerzy Stuhr: è lui che gli permetterà di capire molto in merito ai rapporti con le cose, con le persone e con quel cibo che era stato alla base della sua vita precedente e del suo successo.

Il recupero del cibo, come sottolinei, è una bellissima metafora per parlare di recupero dei sentimenti ma anche per riportarci all’essenzialità dei valori della vita. Ritorniamo alla base per ricostruirci: può sembrare un messaggio semplicistico ma è ciò che tutto dovremmo fare quando ci relazioniamo con il mondo esterno.

È un ritorno alla semplicità quasi a livello francescano, se vogliamo utilizzare il parallelismo. Lo dico in maniera laica, dal punto di vista del rapporto concreto con le cose, le persone e la propria esistenza. Credo che l’intenzione ultima del film sia proprio quella di mettere lo spettatore di fronte alla bellezza del recupero di una certa semplicità e alla possibilità grande di ricostruirsi all’interno di un discorso di semplicità e povertà. Di invitarlo a recuperare la povertà con un atteggiamento positivo.

Ciò che dici mi spinge a pensare a come il film Non morirò di fame arrivi in un momento in cui tutti noi stiamo comunque affrontando una crisi economica e siamo chiamati a riflettere sul concetto di spreco.

E non solo alimentare. Tutti stiamo facendo i conti ma dovremmo farli con la testa un po’ più libera e con un atteggiamento più positivo che da vittime. Normalmente, quando si vivono determinate circostanze o ci troviamo di fronte a delle difficoltà, è facile cadere nel vittimismo. “Poveri noi, guarda come ci hanno ridotti” e non “come ci siamo ridotti”: è più facile ricercare le colpe esterne che le nostre. Guardiamo cosa succede a Pier: nel bene o nel male, ritrova una serie di valori, possibilità e virtù importanti, e recupera il rapporto con gli altri.

Michele Di Mauro (fotografa Erica Fava, production & styling Romina Piperno, grooming Giorgia Pa
Michele Di Mauro (fotografa Erica Fava, production & styling Romina Piperno, grooming Giorgia Palvarini @ Simone Belli Agency, location Vasta Studio Milano, Sweaters and pants @seafarer_since1900, Boots Asos, Jewels @indigenojewels)

Ti eri già interrogato sullo spreco alimentare prima di incontrare la storia di Pier?

Non in maniera così profonda e concreta. Chi come gira molto soprattutto con il teatro e affitta case in continuazione, tende a far la spesa nei supermercati e a far code incredibili per riempirsi di roba. È chiaro che il rapporto con l’acquisto e tutto ciò che è materiale e non solo alimentare è qualcosa che tutti abbiamo presente. Dovremmo però imparare a farci i conti in maniera più logica e utile.

Dopo aver girato il film, ci penso due volte a cosa acquistare e lo dico con sincerità. Non perché devo promuovere la storia. Mi interrogo su ciò che mi serve davvero per il presente e non per il futuro e cerco di vivere in maniera più risoluta il rapporto con l’alimentazione ma anche con la bellezza che questo si porta dietro. La storia di Pier ci fa capire, per esempio, che con poco si può arrivare a fare grandi cose.

L’altro grande tema del film sono le relazioni umane. Pier deve recuperare il rapporto con la figlia e farle superare in qualche modo il dolore per la perdita della madre. Tu sei padre: a cosa hai fatto appello?

È un aspetto intrigante del lavoro dell’attore, in qualsiasi situazione si trovi, pensare a cosa si farebbe al posto del personaggio. Chiaramente, ho pensato a mia figlia Katerina, che ha adesso 26 anni, ma poi il personaggio era sempre parte di qualcosa che era scaturito da una sceneggiatura, figlio di un occhio esterno importante che è quello del regista (in questo caso di Umberto Spinazzola). Da attore, metti a disposizione tutto quello che hai ma sempre all’interno di qualcosa che ha dei confini ben precisi, quelli del film. È solo inconsciamente – non tutto quello che si fa è frutto della logica - che vai a raccogliere pensieri e sensazioni che sono tue e le riporti nel personaggi che interpreti.

È il classico detto per cui l’attore porta qualcosa di suo nel personaggio e il personaggio lascia qualcosa all’attore.

Si, ma in maniera molto semplice e concreta. Non c’è niente di filosofico e non c’è niente di meraviglioso. Sono un attore molto con i piedi per terra. Considero il lavoro una cosa seria, concreta, faticosa, meravigliosa: un momento di gioia suprema ma senza tutta quella patina di sogno o di metafisico.

Michele Di Mauro
Michele Di Mauro (fotografa Erica Fava, production & styling Romina Piperno, grooming Giorgia Palvarini @ Simone Belli Agency, location Vasta Studio Milano, Black shirt Raf Simons via @antoniolieu, Jewels @indigenojewels).

Che sia faticoso è evidente. Non deve essere una passeggiata passare dal ruolo dell’agente dei vip in Call My Agent Italia, dell’avvocato in Studio Battaglia o del Ministero dell’Interno in I delitti del BarLume, a quello di clochard…

Ma è molto divertente. Hai a che fare con umanità talmente diverse e separate anche da te che diventa interessante ospitarle per un po’ di tempo.

Il concetto di umanità diverse da te mi porta a chiederti chi è Michele, non l’attore ma l’uomo.

È molto difficile rispondere, non saprei neanche da dove partire. Sono un uomo pratico, quindi concreto, e tendenzialmente gioioso. Direi complicato e presuntuoso, laddove la presunzione è sintomo di intelligenza sempre accesa. Sono un uomo permaloso, intelligente ma permaloso. E sono un uomo capace di amare e odiare con la stessa intensità.

Intelligente e permaloso: pensi che questa caratteristica ti abbia aiutato nel tuo percorso lavorativo?

Come quasi tutto, a volte sì e a volte no. L’intelligenza è un’arma a doppio taglio perché ogni tanto ti porta a vedere prima degli altri e ogni tanto quello che vedi non ti è utile. La permalosità è un aspetto che viene letto in maniera fondamentalmente negativa: se ti considerano permaloso e basta, non ti porta bene. Solo la gente che ha veramente il tempo e la voglia di conoscerti in fondo, poi sa più o meno come sei. Almeno vale così per me nei confronti degli altri, quindi lascio sempre un margine di possibilità molto grande.

Non morirò di fame è anche il film che segna il tuo ritorno al cinema come attore dopo diversi anni: 2009 è l’anno del tuo ultimo titolo in sala, La doppia ora. C’è stata tanta serialità tv nel frattempo ma poco cinema. A cosa è dovuto questo lungo periodo di assenza?

Io non ho mai fatto la differenza: cinema e televisione sono per me sullo stesso piano. Però, è innegabile che mi siano stati proposti tanti ruoli per serie tv e pochissimo cinema. Perché? Ti rigiro la domanda perché non saprei dare una risposta. Posso però dirti che non ho avuto grandi proposte e non so dirti perché siano state poche. Probabilmente, saprai darmi tu una spiegazione.

Forse perché girano gli stessi nomi da un film all’altro?

È abbastanza plausibile che per certi ruoli prima di te pensino ad altri. L’ultima occasione che ho avuto per la tv, Call My Agent Italia, molto intrigante, grossa e di valore, arriva anche perché i quattro agenti protagonisti non potevano di certo essere interpretati da nomi troppo conosciuti. Non è bello da dirsi ma è un dato di fatto: il nome noto non sarebbe stato credibile nei panni dell’agente di personaggi noti. Occorrevano dunque nomi che non fossero facilmente riconoscibili per gestire i nomi più riconoscibili con cui avevano a che fare.

Michele Di Mauro nella serie tv Call My Agent Italia.
Michele Di Mauro nella serie tv Call My Agent Italia.

Fai l’attore da una vita intera. Cosa significa per te recitare?

Mettere a disposizione di un progetto (che poi diventerà un film, una puntata di serie tv o uno spettacolo teatrale) tutto ciò che sai e tutto ciò che non sai in un tempo di lavoro preciso, cercando di essere il più possibile all’altezza dei rapporti con tutte le persone che compongono quel progetto. E quindi i tuoi colleghi, i registi, gli scenografi, gli sceneggiatori, gli autori, i musicisti, tutta la comunità…

In qualche modo, torna utile essere un operaio dello spettacolo, una definizione che ogni tanto si legge nei curricula. Recitare vuol dire essere un’unità che serve a creare un insieme più grande, il progetto. Al centro di un prodotto c’è sempre il progetto e al centro del progetto c’è sempre un’unità: tu sei quell’unità.

In Non morirò di fame reciti con due attori che appartengono a due generazioni tra loro molto differenti e che hanno due modi di intendere il lavoro in maniera molto diversa. Da un lato, c’è Jerzy Stuhr, e dall’altro lato c’è Chiara Merulla. Hai notato differenze nell’approccio al lavoro?

Naturalmente, sì, non foss’altro per l’età. C’è un rapporto con il lavoro che è diverso, che dipende anche dall’esperienza che hanno e dalle persone che sono.

Di fronte a Jerzy, ero estasiato: avevo la possibilità di stare al fianco di un uomo che ha fatto la storia del cinema e che ha lavorato con il meglio della cinematografia europea. Ho conosciuto una persona fantastica, semplice e a disposizione di quello che stava facendo in maniera totale, dimenticandosi di chi è e di quello che lo ha reso quello che è. Ogni volta che finivamo di girare, diceva “grazie, Michele”, quando il grazie andava a lui. Abbiamo lavorato bene insieme ed è impagabile.

Così come impagabile è stato lavorare anche con Chiara, mia figlia Anna nel film. Ci ringraziava per come l’avevamo accolta e per come la trattavamo. Il rapporto con le persone è sempre in testa alla realizzazione di un lavoro. Quando senti che c’è sincerità e rispetto nei confronti di quello che stai facendo, ti consideri fortunato e felice perché poi c’è un lavoro invece molto complicato e molto crudele. E bisogna fare i conti con quella crudeltà.

La parola crudeltà, per associazione di idee, mi porta al concetto di giustizia sociale. Che poi è un altro grande tema di Non morirò di fame, grazie al bel messaggio inclusivo che veicola con il suo finale. Cos’è per te la giustizia sociale?

Eh, beh, entriamo nel politico. Proviamo allora a farlo entrandoci in maniera soft e parlando del privato in senso politico e non del pubblico perché ogni individuo, nel suo privato, ha un atteggiamento politico molto grande e di gran valore. È su quello che possiamo ragionare. Immagino sempre che si debba essere una buona persona per poi essere un buon cittadino. Ed essere un buon cittadino può essere importante per una giustizia pubblica, un bene pubblico.

Per essere una buona persona occorre maturare negli anni la giusta sensazione di che cosa significhi veramente stare al mondo e starci in maniera dignitosa. Ecco, se da una parte c’è la parola crudeltà, dall’altra c’è la parola dignità. La dignità, la propria e quella degli altri, è al di sopra di moltissime altre cose con cui facciamo i conti quotidianamente. E se guardi con dignità un tuo simile non puoi fare delle cattive scelte. Non è così difficile vedere di che cosa c’è bisogno o di cosa ha bisogno l’altra persona non solo per essere felice ma per stare al mondo con altrettanta dignità.

E se con una boutade ti dicessi “giustizia sportiva”?

Me lo chiedi perché sai che sono juventino… Intanto, lasciamo fare alla giustizia il suo corso, non siamo prematuri e aspettiamo di vedere cosa succederà. Stanno sicuramente cercando di farci molto male. Non dico che ce lo meritiamo: l’apparato dirigenziale della Juventus si è dimostrato di una stupidità impareggiabile. Dopo Calciopoli, di cui sappiamo abbastanza tutto, sono riusciti a farsi intercettare le telefonate e a produrre fatture taroccate con la biro: era gente di una presunzione tale da pensarsi molto vicino alla deità o di una stupidità incomprensibile.

Sul fatto che dovrebbero pagare tutti sarei molto d’accordo ma non la squadra in termini di giocatori e grandi professionisti, penalizzati in maniera inopportuna. Un po’ ti viene da pensare che sia stato fatto perché la Juventus ha sempre dato e continua a dare fastidio a tutto il sistema calcistico italiano per il peso della sua storia, importante e imponente.

Guardando il tuo curriculum, abbastanza vasto, mi salta all’occhio qualcosa di particolare: il doppiaggio delle telenovelas. Che esperienza è stata dare la voce, ad esempio, al protagonista di Señora?

Bellissima, anche perché fare il doppiatore era anche un modo dignitoso di guadagnare soldi. Ho sempre considerato il lavoro come qualcosa che ti deve dare da vivere permettendoti di avere una continuità. Quello dell’attore è però uno dei lavori più precari che possano esistere. Motivo per cui tutto quello che è fattibile da un punto di vista attoriale lo prendo in considerazione. Il doppiaggio è uno di quei lavori che può esser fatto molto bene e a grandi livelli: sappiamo tutti come i doppiatori italiani siano i migliori in circolazione.

Era divertente doppiare, sia la Cosa nei Fantastici Quattro della Disney sia John Turturro ma anche le telenovelas. E poi mia madre, buonanima, guardava le telenovelas, non di certo le altre cose che facevo. Le guardava senza sapere che c’ero io a doppiarle.

E quando lo ha scoperto?

Era felice e interessata. Le vedeva con ancor più entusiasmo.

Che figlio sei stato?

Uno di quelli abbastanza semplici da gestire. A scuola andavo bene, giocavo a pallone (mio padre era il dirigente della società di calcio) e suonavo perché mi piaceva farlo: mi hanno fatto studiare pianoforte. Facevo un sacco di richieste ai miei e loro, nel limite del possibile, cercavano di soddisfarle. E hanno fatto bene perché dopo dalla mie richieste sono nate le possibilità, le basi di quelli che è diventato il mio lavoro. Per una madre l’importante è la felicità del proprio figlio attraverso i rapporti con le persone, con la verità e con il lavoro.

I miei sono stati abbastanza orgogliosi di quello che facevo: ho sempre dimostrato loro che i miei non erano capricci fini a se stessi ma tentativi. Quando nel 1978 ho aperto la partita IVA per il mio primo contratto (16 mila lire al giorno) hanno capito che tutto quello che avevano più o meno seminato era arrivato in un bel prato.

Non morirò di fame: Le foto del film

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