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Marchi: “La notte è un fiume buio e nero da attraversare da soli” – Intervista esclusiva

Marchi, giovane cantautore sardo, ha appena pubblicato il video del suo secondo singolo, La notte, con protagoniste due ragazze alle prese con la fine della loro relazione d’amore. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.

È appena uscito il video di La notte, il secondo singolo di Marchi. Giovane cantautore di origine sarda, Marchi dopo il singolo d’esordio Gennaio prosegue il suo personale discorso sulla nostalgia con il brano La notte, in cui incornicia un’altra storia romantica e travagliata nel formato evocativo di una polaroid. Protagoniste del video, diretto da Marco Serpenti e prodotto da Nostos Productions, sono Giulia Gonella e Mariavittoria Ennati nei panni di due giovan amanti che vivono gli ultimi istanti di una relazione difficile, ambientata nel passato, nel pieno di una calda estate trascorsa in una villa isolata sul lago di Lecco.

Il video del primo singolo di Marchi, Gennaio, aveva invece per protagonisti due giovani soldati in piena Seconda guerra mondiale. Anche in quel caso, le atmosfere erano da cinema queer d’autore e non deve sorprendere la scelta. Prima di essere un cantautore, Marchi ha studiato Cinema sia al Dams sia al Centro Sperimentale di Cinematografia: le storie sono il suo pane quotidiano.

Ma anche la storia personale di Marchi ha un certo peso nel capire la sua musica. Non nell’etichettarla. Le etichette sono qualcosa da cui rifuggire: meno se ne pongono, più si è liberi di essere ciò che si vuole. E l’esigenza di non categorizzare ha toccato inevitabilmente l’intervista esclusiva che Marchi ci ha concesso. Tuttavia, per parlare di Marchi non si può non tenere in considerazione Michele, quel ragazzo che, affamato d’arte, lascia la sua Sardegna e l’isolamento non solo geografico per scoprire chi è.

Michele Marchi.
Michele Marchi.

Intervista esclusiva a Marchi

Da cosa nasce la voglia di ambientare i tuoi video musicali in epoche che sono differenti dalla nostra?

Io non vorrei essere nato oggi e francamente neanche nel 2000. Preferisco il mio anno: mi sento un po’ un uomo del Novecento e mi piace aver vissuto l’eco di quello che è stato il secolo scorso. Anche culturalmente, mi sento più vicino a quell’epoca che non a questa. Gli anni Ottanta e i primi anni Novanta sono stati culturalmente qualcosa di molto bello: si imparava a diventare grandi con mezzi diversi rispetto a quelli che si hanno oggi. C’era anche un altro sistema valoriale e un modo diverso di far comunità: ho l’impressione che si comunicasse meglio o che quantomeno ci si ascoltasse un po’ di più.

Dipenderà dunque dalla mia fascinazione verso un immaginario un po’ decadente, di cui però non avevamo consapevolezza. Solo dopo Mani Pulite, abbiamo capito quanto decadente fosse quel periodo.

Sarà questa la ragione per cui le tue canzoni parlano per “polaroid”. È difficile spiegare ai giovani di oggi il valore che aveva una polaroid, una fotografia istantanea che coglieva un momento unico e irripetibile.

Quando abbiamo scritto il video di Gennaio, ci siamo chiesti quale fosse il valore di una fotografia per un’epoca che era relativa a cent’anni fa, chiaramente diversa dalla nostra. Oggi è tutto così facile e scontato ma all’epoca era molto diverso. Ci siamo domandati cosa potesse succedere nella vita di una persona che in un giorno qualunque desiderava scattarsi una foto con la persona che amava. E da qui è nata la storia di un giorno qualunque nella vita di quei due ragazzi, due militari in guerra in pieno regime.

Che cos’è per te una fotografia?

Una fotografia è un ricatto sentimentale che può essere anche doloroso. È sicuramente qualcosa che ha a che fare con i colori anche della memoria. Non sempre ricordiamo le cose così come sono accadute ma spesso tendiamo ad associarle alle percezioni che abbiamo vissuto. E le percezioni cambiamo con il tempo, facendo diventare il colore del ricordo ancora più sbiadito di quello della carta sulla quale la fotografia è stata stampata.

Qual è il ricordo più bello che conservi?

Un viaggio a New York fatto con un mio carissimo amico quattro anni fa. Era il regalo per i miei trent’anni. Volevo farlo da tempo perché New York è una città con la quale mi sono sentito in contatto sin da subito: ho pianto quando ho visto i primi grattacieli. È stato bellissimo, al di sopra di ogni aspettativa. E le mie aspettative erano già alte.

Quali erano le aspettative?

New York è una città che in qualche modo appartiene a tutti, sia a chi c’è stato sia a chi non c’è ancora stato: fa parte del nostro immaginario visivo sin dalla nascita. La vedi in televisione, nei film o nei libri che leggi: l’America è sempre presente, appartiene alla nostra cultura di massa da almeno tre o quattro generazioni. Andare a New York è stato come andare a trovare un parente mai conosciuto ma con cui da sempre ti scambi un sacco di lettere: è stato come conoscere qualcuno che ami da sempre, con cui hai una grandissima affinità e che puoi finalmente abbracciare fisicamente, dandogli una dimensione materica.

Le aspettative erano alte perché avevano a che fare con i sogni sulla città che, alimentati sin da quando ero piccolo, erano diventati enormi. E sono state confermate dalle sensazioni che ho poi provato davanti a tutta quella grandezza e quel mistero: un senso di meraviglia incredibile, irriducibile…

Ancora maggiore per chi come te viene da una terra come la Sardegna, in cui spesso – come nella mia Sicilia – ci si sente isolani isolati.

Ho abitato a Roma per sei anni e sto a Milano da nove. Ma vengo da un paese nelle campagne della Sardegna, con quattro o cinque mila abitanti. Andare a New York è stato molto impattante anche per la sola vista. La Sardegna è piena di spazi bellissimi, incontaminati, sterminati e vasti tra un paese e l’altro: c’è molto vuoto naturale, per conformazione geografica. A New York invece l’occhio ha sempre qualcosa davanti a sé: è un’esperienza visiva e di immersione indescrivibile.

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Com’è stato crescere in Sardegna con la passione per il cinema, la musica e dunque l’arte in genere?

Crescere in Sardegna è stato molto bello e importante, ho dei ricordi stupendi legati soprattutto alla mia infanzia e al mio paese, alle tradizioni. Forse però in adolescenza mi è mancato un po’ poter condividere certi interessi simili ai miei, soprattutto in fatto di gusti musicali, di cinema, di teatro. In quel periodo l’arte mi faceva molta compagnia, compravo tanti libri, vhs, dvd, cd, giornali… Però ecco era appunto una compagnia abbastanza solitaria. Quando mi sono trasferito a Roma per studiare cinema… è cambiato tutto! Colleghi di università, professori, attori, registi, musicisti… è stata una primavera.

Per me è stato cruciale incontrare altre persone con cui poter condividere le stesse passioni, mi ha aperto il cervello e mi ha anche mostrato la strada per realizzare le cose che desideravo. Mi ha fatto capire che era tutto possibile. Era uno scenario completamente inedito per me, c’era molto fermento sul piano culturale e mi sono sentito “abbracciato”. Ecco sì, a Roma ho trovato un abbraccio!

Cosa rappresenta per te l’abbraccio? Quale tipo di abbraccio ti è mancato maggiormente?

L’abbraccio è per me qualcuno che ti viene incontro e che vuole condividere con te delle cose. Avevo carenza di abbraccio culturale. L’abbraccio romano si è trasformato poi in scoperta e messa in discussione. Non mi sono mai mancati gli abbracci da un punto di vista affettivo ma sicuramente a Roma ne ho trovati altri che mi hanno aiutato a mettere a fuoco chi sono e la mia personalità. Ho trovato gli abbracci degli amici dell’università ma anche delle prime relazioni. Mi sono costruito quella rete che in qualche modo è diventata una mia piccola famiglia, che andando avanti con gli anni ha continuato a darmi quegli abbracci di cui avevo bisogno.

Abbracci che ti hanno aiutato a capire chi sei. E allora chi è Michele?

Questa è una domanda che mi va fatta quando avrò sessant’anni e lo avrò realizzato. Più che altro posso dirti chi voglio essere. Mi piacerebbe essere una persona che ogni giorno fa una piccola scoperta di autenticità, prima di tutto per quanto riguarda l’aspetto umano, per poi tradurla in campo artistico. Quindi, mi piacerebbe essere qualcuno che ogni giorno può fare il suo mestiere, la musica, ed io ancora non posso farlo come vorrei: mi occupo di cinema e di pubblicità nella vita di tutti i giorni per campare! Vorrei poter vivere di musica e usare le parole nella forma canzone, quella in cui mi esprimo meglio.

Ti sei trasferito a Roma per studiare Cinema, prima al Dams e poi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Come sei arrivato alla musica?

Ho sempre fatto entrambe le cose contemporaneamente. Avevo già iniziato a prendere lezioni di pianoforte, chitarra e canto quando ero in Sardegna. Quando mi sono trasferito a Roma, ho iniziato a studiare Cinema e a lavorare nel settore ma riuscivo nello stesso tempo a fare musica, arrivando in finale due volte al Premio De André. Anche se non avevo ancora messo a fuoco del tutto la questione musica: musica e cinema richiedono molto tempo. È come avere due fidanzati o due fidanzate e voler stare con entrambi contemporaneamente. Non sempre è possibile. A volte trascuri uno, a volte trascuri l’altro. Avevo scelto il cinema ma la musica è poi tornata in maniera un po’ prepotente a lanciare sassi dalla finestra e a chiedermi di aprire. Ecco perché da due anni sto cercando di ridarle spazio.

Due fidanzati o due fidanzate, come i protagonisti dei videoclip dei tuoi due ultimi singoli, Gennaio e La notte.

Una testimonianza, in tutto il caos di questo periodo, per dire che noi esistiamo e ci siamo, anche se ci vogliono imbavagliare. Credo che sia importante continuare a lottare e, quando ne ho la possibilità, voglio rappresentare nei videoclip delle mie canzoni la mia comunità di appartenenza. Vedersi rappresentati è stato importante per la nostra generazione, che aveva sicuramente maggiori paure e timori dei millennials, sicuramente più fluidi di quanto lo siamo stati noi. Esistono chiaramente ancora oggi delle polarizzazioni: la cultura per compiersi ha sempre bisogno di molto tempo, soprattutto in una società come la nostra marcata da una cultura fortemente religiosa.

Ricordi il tuo coming out?

Dopo il video di Gennaio non è che abbia avuto bisogno di sottolinearlo, lo hanno dato tutti per scontato. Sono una persona abbastanza orso, timida e introversa: anche con amici o familiari non sono mai stato espansivo e non ho manifestato mai chissà che cosa. Io mi auguro che non ci sia più bisogno in futuro di fare coming out o di specificare il proprio orientamento. La vera fluidità si avrà nel momento in cui la propria sessualità non sarà più argomento di conversazione. A New York, ad esempio, mi sono reso conto che non lo era: ho potuto notare con mano l’effetto di tanti anni di inclusività e fluidità vera.

Nel video di Gennaio i protagonisti sono due ragazzi. In quello di La notte due ragazze. Le storie d’amore al femminile sono quantitativamente meno rappresentate di quelle al maschile e, per questo, forse più enigmatiche. Come mai è ambientato in una villa sul lago di Lecco?

La location è stata abbastanza casuale. Insieme ai filmmaker di Nostos, il gruppo di amici che mi aiutano a trasferire in immagini il mio immaginario, avevamo fatto qualche mese fa una vacanza sul lago di Lecco in una casa che ho trovato suggestiva e perfetta per la canzone. Era in un luogo isolato che bene potesse descrivere l’ultima vacanza insieme delle sue protagoniste.

Cos’è per te La notte?

È qualcosa su cui ragionavo negli ultimi mesi. A volte utilizzi le canzoni per dei ragionamenti tuoi: non è detto che la tua parte razionale riesca a elaborare i pensieri prima di averli tradotti in canzone. Spesso, ci ragioni anche dopo.

La notte è un momento di passaggio, uno spazio ambiguo, spesso colmato da voci interiori da inseguire come delle lucciole impazzite in una stanza buia, che si rincorrono e ti mandano in confusione con le loro domande. La notte è uno spazio di tempo da attraversare da soli: un fiume nero e buio da dover guadare per arrivare sull’altra sponda, per uscire vivi da una storia importante.

Quand’è l’ultima volta che hai vissuto la tua notte?

Cinque anni fa. Ci sono stati nel frattempo incontri, frequentazioni e tutto il resto. Ma le mie relazioni importanti sono state due e l’ultima risale a cinque anni fa: e La notte è inerente a quella storia lì. Poi, le canzoni a volte hanno gli occhi di una persona, le mani di un’altra, la camminata di un’altra ancora… sono un po’ dei Frankenstein, fatte di pezzi di tante storie: non è detto che una canzone parli esclusivamente di una persona sola. A volte, le persone si confondono e si mischiano.

E come si esce dalla notte?

Amo molto una poetessa, che si chiama Patrizia Valduga. C’è un verso suo bellissimo che dice: Né so passare a nuoto ora la notte. Dopo un attraversamento ne esci ancora tutto grondante, con l’affanno. A poco a poco, però, ti calmi, riprendi a respirare e ti ritrovi verso un cammino in cui si intravede la luce dell’alba.

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