Francesco Di Leva, attore amato per i suoi ruoli intensi e spesso scomodi, ha dimostrato nel corso della sua carriera una capacità straordinaria di immergersi in personaggi complessi e oscuri. Eppure, quando lo si incontra fuori dal set, si scopre un uomo capace di sorprendere per la sua leggerezza e vulnerabilità, caratteristiche che emergono chiaramente sin dalle prime battute della nostra intervista. Con un sorriso, racconta di come ha festeggiato il suo compleanno, sottolineando il bisogno di celebrare ogni momento importante della vita, un contrasto netto con i personaggi tormentati che porta sullo schermo.
Questa apparente dicotomia tra l'uomo e l'attore, tra la persona che si emoziona per una torta con candeline e il professionista che dà vita a figure di violenza e rabbia, è il punto focale della sua arte. Francesco Di Leva ci invita a riflettere sulle contraddizioni dell'essere umano, tanto dentro quanto fuori dal cinema. Nel suo ultimo film, Familia di Francesco Costabile in cui recita con Francesco Gheghi e Barbara Ronchi, in uscita il 2 ottobre per Medusa, Francesco Di Leva affronta uno dei ruoli più impegnativi della sua carriera, quello di Franco Celeste, un uomo (realmente esistito) capace di esercitare una violenza devastante sia fisica che psicologica. Un viaggio attoriale che richiede coraggio, sensibilità e profonda introspezione.
Ma Familia non si limita a raccontare la storia di un uomo violento: va oltre, esplorando le dinamiche tossiche che possono radicarsi all'interno di una famiglia, indipendentemente dal genere. La violenza di cui il film tratta non è solo fisica, ma soprattutto psicologica, una forma di violenza spesso sottovalutata ma dalle conseguenze altrettanto devastanti. Francesco Di Leva, parlando del suo personaggio, sottolinea come Franco Celeste sia un manipolatore affettivo, un uomo che riesce a sedurre e dominare la sua famiglia, imprigionandola in un ciclo di controllo e sofferenza. È un ruolo scomodo, che richiede un attore capace di entrare nei panni di un uomo capace di grandi affetti ma anche di orribili crudeltà.
Eppure, il film e la riflessione che ne scaturisce ci spingono a guardare oltre le semplici dinamiche di genere. La violenza, sia essa fisica o psicologica, non ha un unico volto. Nella nostra società si parla spesso della violenza maschile contro le donne, una piaga purtroppo ancora attuale e devastante, ma Familia ci invita anche a considerare le altre forme di violenza che esistono, comprese quelle perpetrate dalle donne contro gli uomini. Francesco Di Leva, durante la nostra conversazione, menziona i dati raccolti dalle associazioni che tutelano gli uomini vittime di violenza, un fenomeno che spesso rimane invisibile a causa di tabù culturali e pregiudizi. La vergogna, l'orgoglio e il retaggio sociale impediscono a molti uomini di denunciare gli abusi subiti, contribuendo a creare un vuoto di attenzione su questo tema.
In Familia, la violenza diventa un linguaggio universale che parla di potere e controllo, a prescindere da chi la eserciti. La storia del film ci mostra come la violenza, quando entra in una famiglia, non solo distrugge chi la subisce, ma lascia ferite profonde su tutti i membri, specialmente sui figli. È proprio questa la riflessione che Francesco Di Leva vuole portare avanti con il suo lavoro: la necessità di riconoscere e combattere ogni forma di abuso, senza distinzioni di genere. Perché, come ci ricorda, la violenza non è una questione di genere, ma di potere, e colpisce tutti, lasciando segni che non sempre sono visibili, ma che possono condizionare intere vite.
Francesco Di Leva, che vedremo presto anche in Avvocato Malinconico 2 e Il treno dei bambini, conclude con una riflessione profonda e toccante: "La violenza psicologica è forse ancora più pericolosa di quella fisica. Non lascia lividi o ematomi visibili, ma segna l'anima, imprigionando le persone in una rete di paura e insicurezza. Che sia perpetrata da un uomo o da una donna, la violenza psicologica mina l'autostima, distrugge relazioni e rovina vite". E in questa prospettiva, Familia diventa non solo un film, ma un monito: l'importanza di riconoscere i segnali di violenza, in qualsiasi forma si manifestino, e di non avere paura di chiedere aiuto.
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Intervista esclusiva a Francesco Di Leva
“Sono come un bambino viziato che deve a tutti i costi festeggiare, altrimenti batto i piedi per terra”, mi risponde Francesco Di Leva quando a inizio intervista, prima di parlare di Familia, il film che lo vede protagonista, gli chiedo come ha trascorso il compleanno. “Faccio i capricci se mia moglie non mi fa avere la candelina sulla torta”: bastano queste semplici parole per restituire sin da subito un ritratto del tutto diverso del Francesco Di Leva che siamo abituati a vedere al cinema o in televisione nei panni di personaggi borderline.
“Più vado avanti con gli anni e più ritorno bambino: è uno strano effetto di cui mi rendo conto anche quando mi guardo allo specchio. È chiaro che vedo una persona che si sta facendo grande nel corpo ma poi mi sento di operare come un bambino… ho trascorso il giorno del mio compleanno con la mia famiglia, siamo a mangiare all’aperto e ho onorato la ricorrenza, come faccio tutte le volte in cui mi succede qualcosa di bello: è anche un modo per essere grati alla vita”.
Ti ritroveremo al cinema dal 2 ottobre in Familia con un ruolo particolarmente complesso, soprattutto di questi tempi: un uomo violento. Cosa hai pensato quando hai letto la sceneggiatura?
Ero abbastanza restio: come fanno tutti gli attori del mondo quando incontrano ruoli così scomodi, mi sono fatto molte domande. Li definisco scomodi perché da loro non arriva mai un complimento positivo e perché da attore sono da te stesso in primis condannati per le loro azioni indifendibili. Non si può nemmeno parlare di divertimento attoriale nell’interpretarli perché altrimenti la gente può fraintendere di cosa stai parlando.
E perché hai accettato?
Ho accettato per lo stesso motivo per cui Leonardo DiCaprio ha accettato di interpretare il malvagio di Killers of the Flower Moon: come ha detto lui, interrogandosi a lungo, certi ruoli qualcuno deve pur farli, soprattutto quando si raccontano storie vere. Vedendo le sue interviste, ho trovato anch’io il coraggio di dire sì a un uomo come Franco Celeste, imbarcandomi in questo viaggio. Mi sono così messo a braccetto del personaggio per un periodo per poi calarmi completamente nella parte solo quando c’è stato bisogno, tenendolo a debita distanza fino al giorno prima delle riprese e abbandonandolo nel momento stesso in cui ho finito di girare.
Anche perché non si tratta di uno di quei personaggi da cui assorbire qualcosa…
Ti lascia solamente il sapere ancora di più che cosa non fare in famiglia, quali atteggiamenti avere e quali allontanare, cosa non dire e come non agire, perché a volte la mente umana è molto labile, vulnerabile e insondabile: crediamo di averne il controllo ma il realtà sa come divenire completamente autonoma e far sì che accada anche ciò che è successo a Franco e, allo stesso modo, a Luigi Celeste. Nel caso di Luigi, parliamo comunque di un bravo ragazzo che, appena avuta la possibilità, ha cercato il suo riscatto, diplomandosi e laureandosi in informatica… eppure, quella sera qualcosa deve essere successo nella sua mente per prendere una pistola e sparare.
Ha forse cercato la sua libertà?
Ma è stata una libertà illusoria con conseguenze che si porterà dietro per sempre: non a caso, si sente in dovere di dire, non appena incontra qualcuno, chi è e quale storia ha alle spalle. È veramente libero? E da cosa?
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Anche tu come Franco sei padre di due figli. L’esserlo ti ha in qualche modo condizionato?
La sceneggiatura era scritta talmente bene che mi ha portato a navigare in dei sentimenti che in realtà già da prima sapevo non appartenermi. Mentre leggevo e lavoravo alla sceneggiatura guardando i miei figli, realizzavo come ero giudicante verso il personaggio. Mi chiedevo sempre come fosse possibile comportarsi in una determinata maniera. Per fortuna, nella mia vita non ho mai avuto a che fare con la violenza familiare, né fisica né psicologica, per cui erano tante le domande che mi ponevo su quest’uomo che possiamo definire un manipolatore affettivo. Non riuscivo nemmeno a provare quel sano divertimento che un attore deve nutrire nell’interpretare ruoli che raccontino una storia diversa dalla sua: non potevo godere delle azioni del personaggio per poi far sì che fosse credibile agli occhi del pubblico.
Non arrivava lo switch necessario. A un certo punto, ho dovuto lasciare i miei figli là dove stavano, buoni a casa, per riprenderli a un mese e mezzo dalle riprese. Ho dovuto farlo perché l’immersione nel personaggio faceva sì che fossi sempre un po’ nervoso, tanto che anche la mia agente ha smesso di chiamarmi. Sentivo addosso tutta la negatività di Franco, me la portavo dietro e, pur facendo uno sforzo incredibile, non riuscivo a essere la persona empatica che da sempre tento di essere nella vita.
Sul set, ho avuto la fortuna di trovare dei compagni di lavoro straordinari che non hanno mai tentato di bloccare l’energia negativa che potevo riversare anche nei loro confronti. Sarebbe bastato poco per far male a qualcuno e, se me lo avessero fatto notare, mi sarei sicuramente irrigidito senza riuscire più a far altro. Sono stato lasciato, dunque, molto libero, facendo sempre attenzione quando erano i corpi ad agire.
Nel film c’è la violenza fisica ma c’è anche quella psicologica, forse molto più interessante e più piena per i segni che lascia addosso e che non scompaiono come un ematoma o un livido.
La violenza psicologica è quella che ti porta a sentirti sempre sotto scacco, sia che provenga da un uomo sia che a esercitarla sia una donna. Dal mio punto di vista, è proprio la violenza l’argomento affrontato da Familia. Chiaramente, nella storia, a esercitarla è un uomo ma non dimentichiamo che accade anche il contrario. Anzi, spesso è ancora più complesso parlare della violenza delle donne contro gli uomini dato che questi ultimi per varie ragioni, dall’orgoglio al retaggio culturale, sono più restii a parlarne e a denunciarne.
Studiando il personaggio, mi sono immerso nelle ricerche e i dati evidenziano come sono almeno due milioni e mezzo gli uomini che hanno subito almeno una volta violenza psicologica nella vita, a fronte dei 12 milioni di donne. Ma si tratta di un dato che lascia il tempo che trova, come mi hanno spiegato l’Avu, l’associazione a tutela degli uomini oggetto di violenza psicologica, fisica e di genere da parte delle donne con sede a Catania, l’unica in tutta Italia in cui mi sono imbattuto mentre cercavo di capire cosa fosse la violenza e quali effetti lasciasse soprattutto in famiglia e nei soggetti più lesi, i figli.
La storia di Luigi Celeste dimostra apertamente quali effetti la violenza abbia sulla psiche dei figli: si avvicina ai gruppi estremisti per ricercare in altro quella figura paterna che gli manca e non per una questione di ideologia. Tanto che dopo se n’è del tutto allontanato.
Prima di essere padre, anche tu sei stato figlio. Che padre hai avuto?
Ho avuto un padre amorevole, sempre per la famiglia. È stato camionista e ha poi lavorato alle metropolitane di Napoli portando la gru, un grande lavoratore. Ovviamente, parliamo di un uomo nato nel 1952, che ha vissuto gli anni Sessanta e Settanta nel pieno della sua vita, e che mi ha tramesso come valore fondamentale l’onestà: non è mai sceso a compromessi, ha sempre detto la sua e non è mai stato accusato da terzi di qualcosa di illegale o illecito. Ha anche rinunciato a parte della sua pensione dopo aver lavorato per 41 anni e ha fatto delle cose che, se venissero raccontate, potrebbero farlo sembrare pazzo pur di essere onesto, una brava persona. Ed è forse stato questo l’insegnamento più grande che mi porto dietro: mi impegno per essere una bella persona in un mondo che prova a portarci da tutt’altra direzione.
E provi anche a trasmettere l’onestà come valore ai tuoi figli?
È il mio obiettivo. Ma a loro provo a trasmettere anche il gran valore dello studio: credo che oggi quello che può veramente salvare un adolescente, a prescindere dell’essere umano che sarà, siano proprio lo studio e l’incontro con le persone per bene.
Non ne va sottovalutata la portata, bisogna accompagnare i figli nello studio e lo considero il mio unico grande investimento per loro: molto probabilmente non potrò acquistare loro una casa o macchine lussuose ma con mia moglie potrò assicurargli lo studio per rendere delle persone intelligenti, capaci di distinguere il bene dal male e in grado di agire sempre nell’onestà e nella legalità.
Così com’è nostro obiettivo far frequentare loro persone perbene. Viviamo in un quartiere abbastanza difficile di Napoli per cui proviamo a far sì che la loro cerchia di amici sia sempre composta da un certo tipo di individui. Anche perché, se ti ritrovi in un gruppo di deficienti, anche tu sarai indicato come tale.
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Hai voluto che i tuoi due figli ti accompagnassero ognuno sul set di un progetto differente: Mario in Nottefonda, che verrà presentato alla Festa del Cinema di Roma, e Morena in Sognando Venezia. Che esperienza è stata recitare con loro?
Una delle più belle della mia vita. E non è una frase fatta. Sono ossessionato dall’idea di lasciare delle tracce di me e dei miei figli piccoli: non c’è mezzo migliore dell’arte cinematografica per farlo. Ti regala la possibilità di essere stampato su pellicola o in digitale e sopravvivere allo scorrere del tempo: tra cento o duecento anni qualcuno potrà vedere ancora quel padre e i suoi figli sullo schermo abbracciarsi, baciarsi, divertirsi e raccontarsi.
Si tratta di qualcosa che mi emoziona e che mi fa molto piacere, anche perché ci stiamo lasciamo dietro un deserto di immagini e di ricordi. Affidiamo tutto agli smartphone che finiscono nei cassetti delle nostre cucine a custodire frammenti di intere vite che non attacchiamo più alle pareti di casa. Chi di noi ha più foto appese alle pareti? Nessuno, è tutto in hard disk fisici o virtuali.
Non appartengo alla categoria di coloro che si portano i figli sul set perché voglio che facciano il mio lavoro. Io, ad esempio, nasco come panettiere e ancora tale mi sento.
Nasci panettiere, eppure il cinema entra nella tua vita grazie all’incontro con un regista palermitano fin troppo sottovalutato, Aurelio Grimaldi. Cosa hai pensato il primo giorno in cui ti sei ritrovato su un set?
Nasce tutto per caso. Mi sono ritrovato sul set di Iris per una figurazione, per una scena in cui c’erano diversi ragazzi che dovevano correre. Per istinto, come farebbero tutti i ventenni, comincio a correre avanti per stare davanti alla macchina da presa. Andai anche dal regista per chiedergli se potessi pronunciare qualche battuta ma Aurelio mi rispose di non preoccuparmi, che sarebbe arrivato quel mio momento se quella fosse stata veramente la mia passione. E così è stato, sempre per merito di Grimaldi che mi scelse per La donna lupo, dando il là alla mia carriera, partita mentre io continuavo a fare il panettiere.
Di quel primo giorno sul set mi ricordo l’emozione. Non avevo bene la percezione di quello che stava accadendo… quando sei giovane e fai un film di quel tipo, pensi di essere arrivato e che da quell’attimo in poi la vita andrà a gonfie vele, come se avessi ottenuto tutto quello che potevi ottenere. Ma ovviamente non è così, ragione per cui ho deciso poi di studiare e di diplomarmi in arte drammatica in una scuola vicino casa mia, dove insegnavano alcuni docenti della “Silvio D’Amico”: tre anni di un’esperienza magnifica.
Come hai poi spiegato a tuo padre che volevi far l’attore?
Non gliel’ho mai spiegato. Non ci siamo mai confrontati, così come non ho mai lasciato definitivamente il panificio. Il coming out, se così possiamo definirlo, è arrivato dopo una serie di conferme lavorative: mio padre si è ritrovato di fronte a un dato di fatto e la sua preoccupazione era inevitabilmente molta. Soprattutto, sul mio futuro: non c’era nessuno che potesse raccomandarmi e, per garantirmi una stabilità, ha tentato anche di aprire un panificio tutto mio.
E tutte le volte che era sul punto di riuscirci trovavo sempre una scusa o sul luogo o sul locale per dire di ‘no’: forse in cuor mio sapevo che prima o poi avrei fatto l’attore. Il fatto, comunque, di avere un piano B, fare il panettiere nell’attività di mio cugino, mi ha anche dato grande forza per andare avanti: male che sarebbe andata, avrei avuto un mestiere sicuro alle spalle. E c’è stato quando sono stato tentato di smettere…
Non ho dunque mai detto a mio padre “Da oggi in poi faccio l’attore”. È avvenuto tutto in maniera graduale: ricordo i periodi per cui andavo sul set e poi a impastare, l’assentarmi per uno spettacolo di 15 giorni per poi tornare al panificio o l’andare a Roma per un provino dopo essermi alzato di notte per infornare. Ancora oggi, quando sto a contatto con il panificio (ancora di lì), sento un’adrenalina molto forte: non mi spaventa mettermi un grembiule e aiutare mio cugino nella lavorazione del pane o al bancone se ne ha necessità.
Curioso poi come, nel momento in cui tutti in casa impastavamo pane per via del lockdown da CoVid, tu abbia invece scritto una sceneggiatura diventata film, La cura.
Ho anche impastato: con mia figlia Morena, abbiamo messo in rete un video sulla preparazione del lievito madre in casa quando trovare il lievito nei supermercati era un miraggio e tutti abbiamo creduto di volerci bene per l’eternità (ride, ndr). Con Francesco Patierno, che ha poi diretto il film e con cui mi lega un rapporto di sinergia intellettuale, ci interrogavamo da tempo sulla possibilità di lavorare ancora una volta insieme ad anni di distanza da Pater familias.
E l’occasione è arrivata in quel frangente: per pura casualità, stavamo leggendo entrambi La peste di Camus, un best seller di quel periodo per ovvie ragioni. Il film è poi uscito nelle sale dopo la fine della pandemia e la gente ha avuto quasi un rifiuto a vedere quelle immagini delle vie deserte e vuote di Napoli. Immagini che riviste oggi hanno invece una potenza enorme, al di là del contenuto: mi generano spavento ma anche positività e bellezza.
Che rapporto hai con la tua città?
Ho un rapporto meraviglioso con Napoli e con i napoletani, motivo per cui resto a Napoli, ci vivo e ci cresco i figli. In ogni intervista, mi chiedono come mai sono rimasto invece di andare via. E solitamente rispondo: “Perché sarei dovuto partire?”. Vivo bene nel mio quartiere e nella mia città, ricevendo un suo sostegno quotidiano ineguagliabile. È incredibile la forza e il calore che i miei concittadini riescono a trasmettermi, ricoprendomi di attenzioni: qui, come ricordano anche i calciatori, è tutto più amplificato e bello ed io mi sento super coccolato. Come su un set cinematografico: Napoli è come un grande film che si gira ormai da sempre, una città stregata (con tutti i suoi problemi) da cui non si vuole andare più via una volta ci si mette piede.
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Familia: Le foto del film
1 / 24Candidato tre volte ai David di Donatello, lo vinci per Nostalgia. Che significa un riconoscimento come quello per te?
È un incoraggiamento per tutti i panettieri, camerieri, giostrai, meccanici e idraulici che sognano di fare l’attore: se ce l’ho fatta io, potete farcela anche voi. Il David è un premio che ammiro e che sostengo. Ne parlavo di recente con amici attori, anche loro candidati o vincitori: non dobbiamo aver paura di farne un atto politico schierandoci l’uno a sostegno dell’altro nei momenti in cui si è in corsa per una statuetta. Non dobbiamo avere paura di sostenere un collega, di organizzare le cene per mostrare il nostro lavoro o di presentarlo agli altri, come accade negli Stati Uniti quando si parla di Oscar. Si crea così dibattito intorno a opere che meritano di essere discusse: abbiamo fin troppo l’abitudine a non apprezzare a pieno ciò che abbiamo.
Sono un sostenitore degli altri e mi piace essere sostenuto. Trovo simpatico vedere anche come ognuno di noi pubblicizza dai propri social il proprio lavoro, pensando (com’è ovvio) che sia il film migliore dell’anno.
Ma i premi ti trasformano anche in punti di riferimento. Ogni attore ha bisogno di alcuni step: per fortuna che esistono Brad Pitt, George Clooney o DiCaprio, sono a un livello talmente irraggiungibile che avrai sempre da attore qualcosa da voler raggiungere. Il riconoscimento è linfa vitale per un attore ma non solo per creare arte infinitamente ma anche per seguire le proprie scelte, i propri ragionamenti e i propri modi di approcciare il settore.
Ad esempio, tra gli italiani ammiro molto l’approccio al lavoro di Pierfrancesco Favino: lo stimo per i contenuti che mette nei suoi discorsi, riuscendo sempre a sorprenderti, ma anche per come ascolta il mestiere dell’attore. Così come ammiro Elio Germano o Toni Servillo, tutti attori a cui ispirarsi ma non perché devi somigliare a loro: pur volendo, sarai sempre di altra natura, cultura o intelletto.
“C’è stato un momento in cui sono stato tentato di smettere”… quando è accaduto?
Intorno ai 31 anni: per fortuna. Avevo già una famiglia, due figli, una moglie e una casa da mantenere: forse fare il panettiere mi avrebbe in quel momento permesso di guadagnare di più e di fare star meglio chi amavo. Poi è arrivato Toni Servillo che a quarant’anni ha colpito tutti per il suo modo di recitare, facendomi pensare che ancora giovane per mollare…