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Flavio Parenti: “Scrivo da quando ho imparato a leggere” – Intervista esclusiva

Vedremo Flavio Parenti in tv in Arnoldo Mondadori – I libri per cambiare il mondo, nei panni di Alberto Mondadori, il figlio di colui che ha fondato la nostra casa editrice. Quello dei libri è un mondo che ha sempre accompagnato Parenti, alle prese anche con la scrittura del suo secondo romanzo.

Mercoledì 21 dicembre Rai 1 trasmette in prima serata il film Arnoldo Mondadori – I libri per cambiare il mondo, un mix di fiction e documentario dedicato all’imprenditore che dal nulla ha fondato la nostra casa editrice, destinata a diventare uno dei colossi dell’editoria mondiale. Prodotto da Anele in collaborazione con Rai Fiction, il film di Rai 1 Arnoldo Mondadori – I libri per cambiare il mondo è diretto da Francesco Micciché e ha per protagonista Michele Placido nei panni dell’ex bambino che risparmiava due lire per comprare un libro anziché le scarpe di cui aveva bisogno.

È innegabile come Arnoldo Mondadori, come mostrato anche nel film di Rai 1, abbia cambiato per sempre il mondo dell’editoria. Molte delle sue trovate hanno posto le basi della società per azioni che la sua prima tipografia, La Sociale, sarebbe divenuta. A lui si devono i gialli che tanto appassionavano a inizio Novecento ma anche metodi distributivi che sfruttavano canali di vendita fino a quel momento ritenuto inusuali, come le edicole.

Tuttavia, al genio dell’imprenditoria si contrappone l’uomo, il padre di famiglia che non sempre ha saputo incontrare i desiderata dei figli. Se Giorgio, interpretato nel film di Rai da Stefano Stalkotos, è quello più simile al padre Arnoldo Mondadori, Alberto è quello che più ne soffre la presenza. Vive costantemente nella sua ombra e non ne condivide la filosofia di fondo. Sono cresciuti in contesti differenti e hanno una visione agli antipodi dei libri. “Pubblicare tanto per diventare grandi” è la filosofia del padre, “spingere la gente a pensare” è quella del figlio.

Alberto Mondadori ha il volto di Flavio Parenti. È a lui che tocca il compito di portare in scena il “tuonante” figlio di Arnoldo Mondadori, come viene definito da Ginevra Bompiani nel corso del film di Rai 1. Fondatore della casa editrice Il Saggiatore, Alberto condivide con Flavio Parenti l’amore per i libri e, soprattutto, per la scrittura. Da tre anni, infatti, l’attore protagonista di tante fiction di successo – da Un medico in famiglia a Cenerentola – e di diversi film d’autore (da Io sono l’amore a Meraviglioso Boccaccio, passando per To Rome with Love) si è dedicato alla scrittura dei suoi primi due romanzi

Quella che segue è un’intervista inedita a Flavio Parenti, da cui emerge l’attore e lo scrittore ma anche l’uomo e il padre che è. Si parla inevitabilmente di Alberto Mondadori ma anche di solitudine, crescita, fisicità e digitale, a riprova delle tante anime che vivono dentro Flavio Parenti. Due sono gli aggettivi che Flavio Parenti usa spesso: fortunato e ossessivo compulsivo. Ci spiegherà perché facendoci addentrare nel suo mondo, un universo in eterno movimento dove la felicità rasenta la noia e gli scacchi permettono di rimanere sani.

Intervista esclusiva a Flavio Parenti

Ci ritroviamo oggi a parlare di Arnoldo Mondadori, il film di Rai 1, su un sito Mondadori. Interpreti Alberto, il figlio dell’editore divenuto a sua volta editore. E, curiosamente, in Il paradiso delle signore interpreterai ancora una volta un editore. Mentre Alberto Mondadori pubblicava i libri, tu ti sei messo a scriverli. Hai già due romanzi pronti in attesa di pubblicazione. Di cosa parlano?

È incredibile come la vita ti dia dei messaggi. Il primo romanzo si chiama La rovina dell’anima, è finito ma non ha ancora trovato un editore. Parla di un mondo tra cento anni, più o meno, in cui gli uomini sono ultra connessi a una specie di Siri nel cervello in grado di anticipare i loro desideri e di produrre delle realtà virtuali, fluide, aumentate. In un universo in cui l’umanità non ha più alcuna percezione di spazio e tempo si muove un investigatore (che sarebbe meglio chiamare “collettore di dati”) che si ritrova davanti a un mistero che nemmeno l’intelligenza artificiale riesce a risolvere.

Al secondo, invece, lavoro da un anno e mezzo. È una specie di avventura spirituale con al centro un giovane ragazzo che, orfano, va alla ricerca dell’anima della madre. Potremmo definirlo in viaggio spirituale tra Pinocchio, Mody Dick e Philip Dick: c’è l’avventura ma c’è anche un tocco di fantascienza “trascendentale”, una fantascienza in cui anche l’anima è stata digitalizzata.

Temi il digitale in qualche modo?

Sono figlio del digitale. Ho una società di videogiochi e sono cresciuto con un padre ingegnere informatico. Sono quindi totalmente digitale, anche se alla ricerca di quello che c’è dopo. È un po’ come se il digitale l’avessi assorbito a tal punto da chiedermi cosa ci sarà oltre: davvero tra dieci o vent’anni avremo generatori di realtà digitali tali da restituirci un’illusione totale di verità? O esisterà ancora qualcosa di trascendentale che non riusciremo a digitalizzare perché è immanente nella realtà?

Cosa rappresenta per te la scrittura?

Una passione divorante. Ieri sera, ad esempio, ho fatto le tre e mezzo perché non riuscivo a fermarmi. Sono alle prese con la seconda stesura del secondo romanzo ma in pratica è come se fossi ripartito da zero. Ho finito con lo scriverne un nuovo trattamento e persino una nuova sinossi.

Quando hai iniziato a scrivere?

Scrivo da quando so leggere. Mia madre mi dice sempre che ho imparato a leggere a tre anni e mezzo e che a quattro leggevo già correntemente. Ho letto tantissimi libri e ho cominciato a scrivere quand’ero in terza media. Anche se già intorno ai nove o dieci anni disegnavo dei fumetti, di cui scrivevo le storie. La prima storia che ho scritto aveva per protagonista un ragazzo tipo Tarzan che viveva in mezzo ai dinosauri. Poi, ho scritto tante lettere d’amore e una novella mai pubblicata. A vent’anni, ho cominciato anche a scrivere poesie, tantissime poesie, che sono liberamente ascoltabili o leggibili sul mio sito.

Negli anni, ho scritto delle sceneggiature per delle serie e per dei film che ho poi prodotto. Ma anche per spettacoli teatrali che hanno vinto dei premi di drammaturgia. Da tre anni, ho infine deciso che sono abbastanza maturo da affrontare un romanzo. Scrivo tutti i giorni per tre o quattro ore e mi piace. Sento che scrivere mi appartiene: ho maturato un percorso che mi ha portato fino a questo punto. Ho conosciuto tutti i media, dai videogiochi alle serie interattive, e tutto quello che ho imparato e conosciuto posso ora incanalarlo all’interno delle pagine che scrivo.

Pagine che richiedono tempo. Sono un ossessivo compulsivo, voglio che ogni frase sia perfettamente comprensibile. È una follia: il mio desiderio più alto è che tutti capiscano quello che scrivo senza però essere didascalico. La semplicità ovviamente richiede essenzialità e l’essenzialità comporta l’uso di poche parole per dire una cosa. Chi legge viaggia sostanzialmente su un tracciato scritto dall’autore, le cui parole non sono altro che uno stimolo alla sua immaginazione. È questa la magia della scrittura e la bellezza della lettura: il lettore deve avere a che fare con se stesso seguendo un percorso voluto da uno scrittore che non deve ledere la sua immaginazione.

Per certi versi, il tuo pensiero non è lontano da quello di Alberto Mondadori, secondo cui i libri avevano il compito di spingere la gente a pensare.

Assolutamente, sì. Il libro è un oggetto che ti mette davanti al tuo io interiore e a ciò che hai dentro.

Flavio Parenti nel docufilm Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo.
Flavio Parenti nel docufilm Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo.

Approcciarsi all’immaginario di Alberto Mondadori non deve essere stato per te particolarmente complicato. Sul set, hai avuto modo di relazionarti con almeno altre tre menti lucide creativamente come quelle del regista Francesco Micciché e degli attori Michele Placido e Stefano Skalkotos, volti di Arnoldo e Giorgio Mondadori (padre e fratello di Alberto) nel film di Rai 1.

Ma anche quella della produttrice Gloria Giorgianni. È stata un’esperienza molto bella e in un certo senso commovente. Sul set ho avuto modo di conoscere Luca Formenton, il figlio dell’editore di Il Saggiatore. Luca mi ha raccontato anche quanto fosse tabù la figura del nonno Arnoldo: è stato un uomo così impressionante e importante da aver fagocitato la vita del figlio Alberto per tantissimi anni, fino al momento in cui quest’ultimo ha deciso di vendere le sue quote della Mondadori per seguire il bisogno di camminare da solo.

Alberto, figlio d’arte dell’editoria, era schiacciato dall’ombra del padre. Trovo meraviglioso che Il Saggiatore sia ancora oggi in attività e sia rimasta una piccola perla. La Mondadori si espansa ed è diventata un titanico gigante dell’editoria mentre Il Saggiatore ha trovato la sua definizione nella sua dimensione di società di tradizione familiare. Per quanto complicata sia stata la sua vita, Alberto è riuscito in qualche modo a farcela. Io direi che Alberto non è un personaggio tragico: è semmai un personaggio che ha vissuto delle difficoltà a cui è riuscito a dare una risposta concreta con la sua casa editrice.

Difficoltà, tra cui l’alcolismo, accennato anche dal docufilm. Alcolismo che, come sottolinea Valeria Cavalli nei panni della madre Andreina Monicelli, era l’effetto di una causa ancora più complessa: il rapporto con il padre Arnoldo. Erano cresciuti in contesti differenti che permettono di confrontarsi con il tema dell’inclusione e dell’esclusione sociale. A cosa hai fatto appello per interpretare il difficile rapporto tra padre e figlio?

Penso che quella tra Arnoldo e Alberto Mondadori sia una dinamica abbastanza comune nel rapporto tra padri e figli. Chi ha un padre illuminato tenta di affrancarsi dal genitore: c’è chi ci riesce e chi, ovviamente, no. Da padre di una figlia di cinque anni, Elettra, noto come i genitori siano la prima forma di apprendimento dei bambini, il loro primo modello di ispirazione per qualunque cosa, dal come si sta in piedi a come si pensa, mangia, gioca o ride. Se il genitore non lascerà poi che il figlio faccia le sue ricerche da solo, finirà per fagocitarlo anche con la sua semplice presenza, lasciando che viva sempre nella sua ombra.

Per far sì che i figli trovino la loro luce, occorre spostarsi. Ma com’era possibile che lo capisse un uomo come Arnoldo Mondadori? Era una persona in un certo senso analfabeta, proveniva dalla povertà e sapeva cos’era la fame. Aveva sì un profondo senso degli affari e un fiuto da tycoon ma gli mancava inevitabilmente un certo tipo di sensibilità. Una sensibilità che non hai se sei cresciuto tra le ortiche ma che maturi se cresci nella marmellata, come è capitato invece al figlio Alberto.

C’è una bellissima definizione di un filosofo americano che definisce la crescita umana in tre fasi: sopravvivenza, prosperazione e derivazione. La prima ha a che fare con i bisogni primari: la fame, il sesso, la sete, la sicurezza. Arnoldo Mondadori è stato un uomo attaccato alla sopravvivenza e che ha conosciuto la prosperazione, quella seconda fase per cui si proietta nel futuro immaginando cosa accadrà nella propria vita a lungo termine. Non è stato però capace di vivere la fase della derivazione, quella in cui grazie a una certa tranquillità raggiunta ci si pongono delle domande quasi filosofiche ma dai riscontri concreti. Alberto, invece, l’ha raggiunta ma sempre sotto l’ombra di un padre che era stato fagocitato dalla macchina del successo, una tentazione che ha continuato a cibare il suo mostro interiore.

Flavio Parenti e Michele Placido nel docufilm Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo.
Flavio Parenti e Michele Placido nel docufilm Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo.

Quanto hai lavorato sul tuo fisico per interpretare Alberto Mondadori? In scena sei molto più magro rispetto alla tua solita fisicità.

La storia di Mondadori è un excursus nel tempo, motivo per cui la fisicità del personaggio ovviamente cambia. Ho preferito partire da una certa magrezza per poi avere la cosiddetta pancia da alcolista. Non è detto che un alcolista sia grasso: spesso è magro e ha la pancia. Si, ho peso un po’ di chili per entrare nel personaggio.

È abbastanza evidente. Anche perché tutti conosciamo la tua fisicità, anche grazie a un film come Goltzius and the Pelican Company del maestro Peter Greenaway.

Quella che era la mia fisicità di quando ero giovane e bello (ride, ndr). Reputo quella una grande esperienza, tra l’altro molto formativa. Recitare con Greenaway è qualcosa di incredibile: ci si affida alla genialità di un uomo senza sapere assolutamente dove si sta andando. Si crea uno strano rapporto anche di fiducia per cui anche nel recitare nudo ti senti completamente tutelato: sai che sei tra le mani di un pittore.

Chi si fermava al nudo dimostrava anche di non aver capito nulla del senso dell’opera.

Greenway è un regista super visionario che continua ancora oggi a scardinare la narrazione classica. Il suo è chiaramente un cinema di nicchia ma resta un grandissimo artista dalla forte coerenza interiore. Ha una visione personale dell’arte che rimarrà negli annali e che difende dall’inizio alla fine, proprio Luca Guadagnino (che Parenti ha avuto come regista nel magnifico Io sono l’amore, ndr).

Nella tua variegata carriera di attore, hai già avuto modo di confrontarti con personaggi realmente esistiti. Penso ad esempio all’Einstein diretto da Liliana Cavani. Cosa vuol dire per te confrontarsi con una figura reale?

Non mi pongo questa domanda. In questo momento, sono sul set di La lunga notte (serie tv Rai che racconta l’ultima seduta del Gran Consiglio del fascismo, ndr), dove interpreto Umberto II di Savoia, altro personaggio realmente esistito e di cui esistono centinaia di foto. Da attore, mi occupo perlopiù di rendere interessante il momento, di scolpire un’anima nel presente. Non sono io a decidere come vestire, pettinare o com’è un personaggio: il mio compito è solo quello di tirare la palla e fare gol. Tutto il resto dell’azione spetta agli altri. Sono responsabile solo del tiro e tendo a farlo al meglio.

Flavio Parenti e Michele Placido nel docufilm Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo.
Flavio Parenti e Michele Placido nel docufilm Arnoldo Mondadori - I libri per cambiare il mondo.

Dicevamo prima “sedere sulle ortiche, sedere sulla marmellata e sedere sul burro”, metafora che viene espressa nel film di Rai 1 Arnoldo Mondadori. Dal punto di vista professionale, quando ti sei sentito seduto su una cosa o sull’altra?

Mi sento sempre seduto sulle ortiche, anche se allo stesso tempo ho sempre avuto molta fortuna. Ogni volta è una nuova sfida da affrontare. Noi attori rimaniamo dei liberi professionisti: finito un progetto, torni a casa e sai che devi ricominciare da capo. Devi tornare a vincere un provino, dimostrare di essere capace, incontrare persone che non sanno cosa hai fatto o che non conoscono il tuo nome. La vita dell’artista è un continuo ritornare alle origini, un continuo rimettersi in discussione ed essere rimesso in discussione dal mercato. Ciò genera una pressione devastante: è come se non ti sentissi mai arrivato.

Spesso mi chiedono se faccio ancora i provini. La risposta è sì: devo farli. Se non sostengo un provino, vuol dire che quello che ho davanti nasce da altre dinamiche di amicizia o di salotto che non mi interessano. Mi reputo un gladiatore del set. Faccio i provini, il 90% li perdo e il 10% li becco: ho sempre fatto così e spero di continuare ad andare avanti allo stesso modo per sempre. So che da un certo punto di vista è stressante: devo confermare ciò che penso di aver già confermato negli anni. Ma ogni volta ogni esperienza e incontro aggiungono una specie di carta in più alla mia recitazione.

Altro motivo di pressione può essere legato al bisogno di mettere da parte dei soldi. Nell’ottica del prosperare di cui parlavamo prima, i soldi sono la chiave necessaria per trovare una forma di tranquillità che ti permette poi di far altro. Ho sempre cercato di non far debiti e tento di risparmiare quello che posso per avere una condizione economica che mia dia una stabilità mentale utile a dirmi che se non lavoro per un anno posso sopravvivere.

Ciò ha fatto sì che sedessi anche sul burro. Una condizione che quando ero un giovane attore di teatro non esisteva ma che ho cominciato a vivere grazie alle fiction e ai film, a prodotti come Un medico in famiglia che mi hanno dato molta popolarità e una discreta liquidità.

Il provino è un modo per mettersi costantemente alla prova. Cosa pensi che ti manchi?

Se lo sapessi, lo cercherei. È un po’ anche il tema del romanzo che sto scrivendo. Il narratore è un anziano di 75 anni che non capisce perché non è riuscito mai in tutta la sua vita a farcela. A un certo punto, si convince di essere nato forse rotto, di avere qualcosa che non funziona nella sua anima. Si chiede allora se sarà così per sempre: gli mancherà quel pezzetto anche quando morirà?

A volte mi dico che quel pezzetto manca a tutti noi. La vita è un continuo cambiamento ed è inevitabile che non ci senta sempre in sincronia o in sincronicità con il tempo perché le mutazioni sono troppe. Bisogna solo accettare questo stato di mutevolezza ma anche di essere in difetto o in eccesso nei confronti della realtà, di non essere perfettamente in equilibrio: si può raggiungere la Buddità - o qualsiasi parola vogliamo usare al suo posto - ma non conosco nessuno che l’abbia raggiunta.

Un senso non l’ho ancora trovato ma spero di non trovarlo mai. Anche perché qualora lo trovassi che farei dopo? A parte tutto, credo che chi trova un senso sia felice. Però, che noia la felicità: è bello trasformarsi, cambiare, avere crisi, ricostruirsi, essere fuoco e non soltanto acqua. È bello anche poter rinascere dalle proprie ceneri quando le cose vanno male: l’importante è non mollare. Ma per non mollare occorre avere anche gli strumenti giusti, quelli che possiamo trovare anche nel leggere un libro o nell’incontrare un maestro.

Ecco perché non dobbiamo continuare sempre a cercare: la ricerca ci permette di scoprire nuovi strumenti di vita, di pensiero e di cuore che ci danno modo di relazionarci con il mostro che abbiamo dentro e con la realtà. Forse solo allora si rimane in equilibrio. Il che non vuol dire rimanere fermi. Se si è su una zattera, per rimanere in equilibrio occorre muoversi continuamente per bilanciarsi e non cascare.

Flavio Parenti.
Flavio Parenti.

Se ti dico tattiche e strategie, cosa ti viene in mente?

Gli scacchi, altra mia grande passione.

Come fa una mente razionale e romantica come la tua a relazionarsi con gli scacchi, in cui l’imprevedibilità è sempre dietro l’angolo?

Gli scacchi sono, per molti versi, un gioco profondamente razionale: vince chi calcola meglio. Certo, l’orizzonte degli eventi è sempre misterioso: puoi calcolare fino alla quindicesima mossa ma alla sedicesima perdi. Vince chi ha l’orizzonte degli eventi più lontano e riesce a valutare meglio la situazione dell’avversario o a metterlo in difficoltà per guadagnare tempo.

A me gli scacchi servono per non pensare, per mettere il cervello in pausa. C’è un detto che dice che gli scacchi mantengono sani i pazzi e, secondo me, è abbastanza veritiero: sono il mio unico vizio, in grado di sublimare tutto ciò che di orribile mi porta il mio essere ossessivo compulsivo e assolutista delle proprie idee.

E poi gli scacchi allenano la mente. Mi tengono fresco e brillante da un punto di vista mentale. Mantengono viva la memoria, uno strumento molto utile per la recitazione.

Ti sei definito più volte ossessivo compulsivo. Perché ti attribuisci tale personalità?

Tieni sempre in conto che ieri sono stato fino alle tre davanti al computer… Sono del parere che se si fa tutto bene, il resto viene facile. Ma ci sono anche momenti in cui divento una “bestia”, in cui mi abbandono a me stesso: sono quelli in cui rimango da solo, sbracato sul divano a mangiare take away e a pensare ai miei libri o alle mie idee.

Hai paura della solitudine?

La adoro ma a piccole dosi, altrimenti so che mi fa male. La ricerco continuamente perché so che quello è il momento in cui sono libero di perdermi ed è fantastico perdersi. Pensate alle vacanze: i momenti più belli sono quelli in cui ci si perde e ci si ritrova in balia dell’imprevisto in luoghi che non si conoscono e con gente che non pensavi di incontrare.

La solitudine è un modo per perdermi dentro me e scoprire le idee che arrivano dal mio inconscio ed emergono nel mio conscio. Ma non deve essere eccessiva: se rimango troppo in solitudine, mi annebbio completamente. Quindi, sì, mi fa paura in un certo senso.

Arnoldo Mondadori: Le foto del film

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