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Colombo: “Canto in chiave pop i versi di Emily Dickinson” – Intervista esclusiva

colombo wild nights
Wild Nights è il primo singolo del progetto pop neoclassico che ha in mente Colombo: portare in musica, in chiave contemporanea, i versi di Emily Dickinson, la sfortunata poetessa statunitense.

È uscito il 27 ottobre Wild Nights (Artist First), il nuovo singolo del progetto Colombo, alias Alberto Travanini. Si tratta del primo capitolo di un disco di debutto che vede come protagonista i versi di Emily Dickinson, la poetessa statunitense dalla tormentata vita professionale e personale.

Quello che Colombo ha in mente è un progetto pop neoclassico che non ha precedenti. Wild Nights prende spunto dalla melodia iniziale della Sinfonia n. 9 di Dvořák, che la chiamò Dal nuovo mondo, perché composta mentre lavorava negli Stati Uniti. Infatti, all’interno della sinfonia si trovano diversi riferimenti alla cultura del luogo, come gli spiritual afroamericani e la musica dei nativi americani.

Il testo della canzone, invece, è dato dalla fusione di due poesie di Emily Dickinson, Wild Nights - Wild Nights! e To love thee year by year, liriche che parlano di amore come immaginazione, attesa, costanza, sacrificio. Ma a parlarcene in quest’intervista esclusiva è Colombo stesso. Classe 1994, bresciano, di professione vocal coach, Colombo ha studiato pianoforte sin da bambino, prima di laurearsi col massimo dei voti al Conservatorio A. Boito di Parma.

Intervista esclusiva a Colombo

Wild Nights, il tuo nuovo singolo, unisce due poesie di Emily Dickinson con la nona sinfonia di Dvorak. Come nasce l’idea?

Wild Nights è il primo singolo di un intero progetto musicale, che poi si tradurrà in un album, tutto dedicato alle poesie di Emily Dickinson. Nasce ovviamente dalla bellezza delle poesie di Dickinson: quando ho cominciato a leggerle, le ho trovate a primo impatto estremamente musicali. Da musicista mi sono subito chiesto come avrebbero suonato se fossero state cantante in maniera pop e contemporanea. Ho provato allora a lavorarci sopra. Ho una formazione classica, ho studiato pianoforte e mi sono diplomato al Conservatorio: unire le due cose è stato il passo successivo.

E ho voluto allora prendere un’altra suggestione musicale, un tema di musica classica, e unirla alle parole delle poesie. Classica è solo la suggestione perché, comunque, il brano che ne è nato ha tutt’altro sviluppo. È stato un modo per unire il mondo antico con il mondo nuovo.

A parte che già la sinfonia di Dvorak è chiamata anche Dal mondo nuovo.

È stata scritta negli Stati Uniti in un periodo di grande fervore. Comunque, secondo me, anche le poesie di Emily Dickinson hanno degli elementi molto contemporanei, oltre che fuori dal tempo. Parlano soprattutto di amore, natura, spiritualità, morte: tutti temi universali. In più, la scrittrice aveva un approccio abbastanza futuristico e molto personale, nonostante sia stata vittima del suo tempo e non le sia stato permesso di fare ciò che voleva, ovvero scrivere. I pregiudizi nel periodo storico in cui ha vissuto erano duri a morire così come era difficile smantellare le differenze di genere.

Wild Nights è però solo una delle poesie che hai usato ma l’hai scelta come titolo. Come mai?

Wild Nights è l’incipit di una delle due poesie. Era solita dare come titolo l’incipit, il primo verso. E quindi ho voluto mantenere la sua stessa consuetudine. Ho scelto due poesie tra loro molto diverse ma che si completano a vicenda. La prima parla di amore a distanza, anche in senso passionale, tanto che si dice che il suo editore non volesse pubblicarla perché giudicata troppo lussuriosa per lo spirito dell’Ottocento. La seconda, invece, affronta il sentimento in maniera più razionale ponendosi chiedendosi se sia più doloroso continuare ad amare senza che l’altra persona possa ricambiare o rinunciare all’amore stesso. Entrambe le poesie erano dedicate a Susan, il suo grande amore.

E come sono invece le tue wild nights?

Le mie notti selvagge? Probabilmente molto poco selvagge. Ciò che mi avvicina più alla poesia è la vicinanza con il suo lato nostalgico, il rivedere persone e cose del passato e immaginarsele nel futuro.

E c’è in te nostalgia del passato?

Tutti abbiamo un po’ nostalgia del passato, di un passato che non abbiamo mai vissuto. È qualcosa di molto razionale, forse tipica di molte persone che si occupano di arte. Tendiamo a dire che tante cose non vanno o non torneranno più, che la musica non ha più la centralità artistica di una volta, che si stava meglio prima… Dall’altra parte, però, sono anche una persona che guarda molto a quello che deve arrivare. Sono in bilico tra la nostalgia del passato e la realizzazione dei sogni. Forse mi manca anche un po’ l’avere la testa tra le nuvole o essere centrato sull’ora.

Da cosa è rappresentato il tuo ora? Oltre a lavorare sul nuovo disco, sei anche un vocal coach.

L’insegnamento è la mia occupazione principale e, quindi, mi prende effettivamente molto tempo. È un lavoro che mi piace e, organizzandomi, riesco a dedicarmi ai miei progetti non solo musicali. Mi piace molto scrivere: ho sempre varie idee, anche se spesso rimangono lasciate a metà. Mi piace creare, anche se poi ciò che creo rimane chiuso in un cassetto.

Insegnare mi piace perché ho sempre avuto l’istinto di aiutare gli altri a raggiungere i loro obiettivi. I miei studenti appartengono a fasce di età differenti e provengono da estrazioni e percorsi diversi. In questo momento, tra loro ci sono molti giovani che vogliono fare un percorso molto serio nella musica: hanno già i loro progetti in testa e mi piace vedere come possono piano piano concretizzarli.

Ma è difficile portare avanti una professione come quella di vocal coach in un mondo in cui tale figura è inficiata da tutto ciò che si vede in televisione nei talent o nei varietà?

È molto difficile. Anche perché la figura del vero vocal coach non c’entra nulla con quanto passa in televisione. È un termine molto abusato e ciò che si vede in tv non rappresenta quello in cui consiste la professione. Purtroppo, quell’immagine distorta ha portato molta diffidenza verso lo studio e l’insegnamento, soprattutto in ambito pop. Per come la vedo io, il vocal coach è colui che ti aiuta a rimuovere quegli ostacoli che possono esserci a livello musicale o di uso della voce per permetterti di riuscire a realizzare quello che vuoi fare. Fortunatamente, qualcosa sembra che adesso stia cambiando e che anche gli artisti più affermati cominci a capire il valore del vocal coach.

Hai iniziato a suonare a sette anni. Era un modo per tua mamma per tenerti impegnato?

No. Anche se in realtà l’aspetto familiare ha avuto un suo peso in un certo senso. Mia madre era una pianista ma non è che le interessasse particolarmente portare i figli sulla sua stessa strada. In famiglia, di tre figli sono l’unico che suona. Tutto è nato quando da piccolo i miei genitori mi hanno regalato una tastierina per bambini. Avevo cinque anni circa e, suonandola, mi sono reso conto che mi piaceva. Crescendo, ho chiesto a mia madre se mi insegnasse a suonare. La risposta era sempre no fino a quando, di fronte alla mia insistenza, ha deciso di mandarmi da un’altra persona a imparare a suonare il piano.

Suonare il pianoforte e frequentare il conservatorio avrà comportato ovviamente dei sacrifici.

Non è un percorso semplice perché prima di tutto ti porta via tanto tempo e tante energie soprattutto nell’età in cui sei proiettato su altro. Quando hai 15 anni, vorresti passare il weekend a non far nulla o a uscire con gli amici. E invece non puoi perché devi studiare. Ho sempre provato a cercare il giusto equilibrio, rinunciando a un sacco di cose futili: ho visto troppa gente intorno a me dedicarsi a quelle e diventare arida. Ma allo stesso tempo non ho voluto dedicarmi al 100% alla musica classica: è un tipo di percorso che richiede una vera e propria vocazione.

Sono cronaca di questi giorni gli abusi e le vessazioni che hanno interessato le giovani sportive dell’atletica. I metodi spesso usati non erano proprio indicati dalla Montessori, per usare un eufemismo. Anche in ambito musicale esistono queste tecniche “coercitive” per impartire gli insegnamenti?

Il mondo della musica classica è sicuramente diverso da quello agonistico-sportivo: non si lavora sulla corporeità. Il fisico per un musicista non è un grosso problema. Tuttavia, la rigidità dell’insegnamento è qualcosa che hanno in comune. Ho studiato in diversi ambienti e ho visto diverse situazioni: alcune tranquille, altre terroristiche. E il terrorismo nella musica è legato alla mentalità che si vuole trasmettere: c’erano casi in cui non ci si poteva alzare dal pianoforte se non si ripeteva almeno trentamila volte lo stesso passaggio per eseguirlo in maniera corretta. Le urla che potevano arrivare addosso non erano normali.

Sono esperienze che lasciano segni?

A me li hanno lasciati. La peggiore esperienza l’ho avuta in terza media, a tredici anni. Fortunatamente, sono scappato a gambe levate ma minato non poco la mia passione per la musica classica.

Come mai scegli come nome d’arte Colombo?

È nato per caso quando mi sono ritrovato a riflettere sui piccioni.

Sui piccioni?

La mia fidanzata, come tante altre persone, ha la fobia dei piccioni. I piccioni sono sempre di più e sono l’unico animale che, anziché soccombere dove l’uomo urbanizza, continua a proliferare. Hanno una straordinaria capacità di adattamento a un mondo che non è stato costruito per loro. Mi è piaciuta come metafora, restituisce bene l’idea di integrazione e mi ricorda il mio stesso percorso sia artistico sia personale. Voglio coniugare musica classica e pop, il mondo vecchio con quello nuovo, e stare bene come i piccioni.

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