Sumaia Saiboub: “Il Ramadan? Quanti pregiudizi. Per questo lo racconto su Instagram”

24 anni, di Modena, Sumaia Saiboub fa parte di quella seconda generazione di italiani che si impegna quotidianamente a creare, mattone dopo mattone, una società più inclusiva. Lo fa attraverso video su Instagram che uniscono ironia e informazione, sfatando stereotipi e falsi miti sulla religione islamica. L’abbiamo intervistata

Il suo profilo Instagram, @coveredinlayers, è un puzzle colorato di look infusi di libertà. Anche portando l’hijab. Sumaia Saiboub, creator modenese e Head of Content del progetto editoriale Colory, ogni giorno costruisce ponti per dimostrare che si può essere italianissimi anche seguendo la fede musulmana, e che si può essere femminili ed eleganti anche indossando l’hijab.

https://www.instagram.com/p/CaKAp2oszbo/?igshid=NDA1YzNhOGU=

Per tutto il mese di aprile, durante il Ramadan, ha condiviso video che miravano a fare chiarezza su questo momento sacro dell’anno, il periodo del digiuno, del raccoglimento e dell’autodisciplina. I suoi reel rispondono all’iniziativa di Meta #MonthOfGood, con cui ha voluto raccogliere le storie dei musulmani sparsi in tutto il mondo. Un’iniziativa nata per unire i fedeli dando loro modo di raccontarsi, ritrovarsi, sentirsi parte di una grande comunità che travalica confini e latitudini.

#MonthOfGood nasce da un’esigenza emersa durante la pandemia, quando molte persone si sono trovate a dover digiunare da sole, lontane dai propri cari e dalle proprie famiglie. Soltanto nel 2021, oltre 6,8 milioni di persone si sono unite a circa 20.000 gruppi Facebook sul Ramadan. Una tendenza che sta proseguendo anche oggi, dimostrando quanto i canali social siano spesso utili a creare condivisione e abbattere i pregiudizi.

Proprio per raccontare cosa significhi celebrare Ramadan a chi non lo sa – o è alquanto confuso – sono nati i reel di Sumaia. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua idea.

Cosa ti ha spinta a pubblicare video sul Ramadan?

Negli anni, parlando con i miei coetanei, mi sono resa conto di quanti cliché esistano su questo periodo dell’anno. Ho deciso così di tematizzare questo argomento attraverso brevi video – in formato reel – dal taglio ironico e divertente. Non sono una teologa e non voglio fare discorsi sulla religione, ma mi accorgo che c’è tanta curiosità, tanta voglia di saperne di più ma anche tanto riguardo nel chiedere, nel domandare. Per questo ho deciso di fare un passo in avanti e di rompere il ghiaccio. È servito: in tantissimi mi scrivono di aver finalmente compreso alcune cose che prima non capivano.

https://www.instagram.com/p/Cc082EZqbOj/?igshid=NDA1YzNhOGU=

Quali sono i cliché più ricorrenti?

Moltissimi pensano che tutti debbano fare digiuno, ma in realtà non è così: digiuna chi riesce e chi non ha problemi di salute. Anche le donne durante le mestruazioni non sono tenute a digiunare. Sull’acqua c’è inoltre flessibilità: chi fa lavori pesanti, soprattutto d'estate al caldo, può bere. Ma non solo nelle estati più torride: anche in alcune zone nel Sud del mondo è stato concesso di bere acqua. Purtroppo la narrazione dominante sulla religione islamica è, ancora oggi, associata agli estremismi. Ma come sempre, nella vita, non è tutto bianco o nero: ci sono tantissime sfumature di grigio. Ed è proprio questo che voglio far capire nei miei video.

In questi ultimi due anni di pandemia sono stati in molti a trovarsi soli durante il Ramadan, lontani dai propri cari. In questo senso i social – e in generale l’online - sono riusciti a unire seppur virtualmente tanti fedeli. Tu come hai vissuto quel periodo?

Ebrei e musulmani sono stati i primi, durante la primavera del 2020, a celebrare le proprie tradizioni durante la pandemia. Proprio per ricreare un senso di comunità, nel 2020, insieme a un’amica olandese ho creato un podcast che abbiamo chiamato The PodFast (da fast, digiuno in inglese) in cui parlavamo di vita quotidiana durante il Ramadan, intervistando ospiti. Lo scopo era quello di tenere compagnia alle persone che si trovavano a digiunare da sole, ma anche di fare informazione su cosa significhi davvero il Ramadan, abbattendo i pregiudizi.

https://www.instagram.com/p/CcN_5iegRdB/?igshid=NDA1YzNhOGU=

Dove nascono questi pregiudizi, secondo te?

Molto nasce, a mio parere, dal sistema scolastico: a scuola studiamo in primis la storia d’Italia, poi la storia dell’Europa. Fine. Ogni tanto vengono citati personaggi come Gengis Khan, o magari opere monumentali come la Muraglia Cinese, ma l’approfondimento è poco, pochissimo. Anche di Paesi considerati occidentali, come l’Australia, si parla poco. Inoltre i media, purtroppo, non si occupano di approfondire questi argomenti: c’è molta spettacolarizzazione delle persone considerate “diverse”, ma poca curiosità vera, che spinge le persone a documentarsi, leggere, andare oltre.

In questo senso, Colory, il progetto editoriale di cui sei Head of Content, vuole dare voce alle seconde generazioni di italiani facendo informazione e stimolando la curiosità. Mi spieghi in cosa consiste questo progetto?

Colory è stato fondato da Tia Taylor dopo gli avvenimenti del maggio 2020 con l’uccisione di George Floyd. Io sono nel team del progetto fin dalla nascita. Tia è nata in America da mamma giamaicana e papà nigeriano, e mi raccontava di come negli Stati Uniti si sia sempre sentita americana. Arrivata in Italia però, ha scoperto che i ragazzi della seconda generazione, differentemente da lei, non si sentivano parte della cultura del Paese in cui sono nati. Perché è la comunità che li circonda a non farli sentire tali.

A chi è nato in Italia da genitori immigrati, infatti, ancora oggi capita di sentirsi rispondere cose come “noi non assumiamo stranieri”, oppure “noi in Italia facciamo così”. Eppure siamo nati e cresciuti in Italia proprio come tutti gli altri. Per questo Tia Taylor ha deciso di fondare un progetto editoriale che si rivolgesse alle seconde generazioni in chiave di empowerment. Vogliamo soprattutto dimostrare che l’Italia è piena di professionisti di seconda generazione: nessuna scusa, dunque, a chi dice che è difficile assumerli perché non ce ne sono. Devo dire che comunque le cose, piano piano, stanno migliorando.

https://www.instagram.com/p/CchyhKmsN4H/?igshid=NDA1YzNhOGU=

Nel contesto che descrivi e secondo la tua esperienza, quanto è difficile costruire la propria identità culturale come seconda generazione?

Non voglio generalizzare, ma penso che per la maggior parte delle persone appartenenti alla seconda generazione valga la regola del “Third Culture Kid”: nascere e crescere in un luogo diverso da quello dei tuoi genitori porta a sviluppare una terza cultura molto personale, fatta di diverse commistioni. Direi che la mia identità si compone al 70% della cultura di dove sono nata e cresciuta e al 30% di quella del luogo di origine dei miei genitori. Penso sia così in molti casi, ma non voglio esprimermi in modo assolutistico.

Il conflitto interiore nasce dal fatto che la società si aspetta che tu sia e agisca in un modo, mentre i tuoi genitori si aspettano un’altra cosa. In realtà, però, tu sei qualcosa di ancora di diverso, sei un ponte tra queste due culture. Spesso però, avere un bagaglio culturale in più viene considerato un meno. Una tendenza che è eredità di un certo pensiero colonialista che considera alcuni bagagli culturali migliori di altri. Si tratta di un’eredità di cui sarebbe utile sbarazzarsi. Perché la prova tangibile del fatto che viviamo in una democrazia è quella di poterci vedere diversi. È proprio quando iniziamo a essere tutti uguali che finisce la libertà.

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