Judith Butler, la filosofa femminista che spiega perché il genere è una performance
Alla domanda “Come definire la propria identità?”, Butler risponde andando al di là delle rigide classificazioni della biologia e della linguistica affermando invece la necessità di trovare un «posto tutto per sé». Questo significa, nelle parole della filosofa, smettere di considerare l’identità femminile come qualcosa di fondativo e vederla come qualcosa che viene generato. Pensarsi oltre perché, come scrive Butler, «anche se si “è” una donna, ciò di sicuro non è tutto ciò che si è». Non esistono allora due soli generi, ma tante possibilità quante ciascuno di noi se ne dà: così, l’interrogativo “Che cos’è una donna?” si amplia di un universo di significati, implicazioni politiche, sociali, culturali e biologiche che fanno da satellite a questo sostantivo.
La sua teoria queer e anti identitaria prende forma opera dopo opera, mentre lei stessa si definisce queer e femminista pur sottolineando che nessuna qualificazione la identifica veramente. Piuttosto, afferma la Butler, il suo corpo si muove e attraversa liberamente diverse identità.
Oltre il “genere”, il pensiero di Judith Butler scardina il binarismo
Non nascere, ma diventare: la vita e la riflessione filosofica di Judith Butler è nel divenire.
Nata a Cleveland (Ohio) il 24 febbraio 1956, Butler oggi è docente presso il Dipartimento di Retorica e Letterature comparate all'Università della California a Berkeley e professoressa presso la European Graduate School. La sua famiglia è di religione ebraica, una radice precisa che la porterà a rendere “politico” il suo personale: durante l'adolescenza comprende di non rientrare nei “canoni sessuali” usuali, si rende conto di essere lesbica e descrive in più punti della sua opera questo momento di “grande smarrimento”.
Nella sua condizione di ebrea, in un contesto familiare e sociale in cui l’obiettivo è farsi accettare dalla società americana, uniformandosi agli standard, Butler si percepisce “diversa” da ciò che le viene richiesto di essere
Dopo il dottorato a Yale, perfeziona i propri studi di teoria critica in Germania grazie a una borsa di ricerca. Il percorso intellettuale di Butler è il frutto di una grandissima curiosità intellettuale che spazia dalla teoria politica di Hannah Arendt a quella di Michel Foucault: quando alcune colleghe di facoltà le chiedono di tenere una conferenza sulle filosofe femministe, Butler parte da Simone de Beauvoir e dal suo concetto «donne non si nasce, si diventa» che successivamente pur criticherà per aver operato una distinzione tra il sesso biologico e il genere costruito socialmente. Così la filosofa inaugura la sua riflessione sul verbo “diventare”, domandandosi se anche uomini non si diventi e non si nasca, o se nascendo uomo o donna non sia possibile non essere né l'uno né l'altra cosa ma qualcosa che vada oltre a questi due generi.
La riflessione di Judith Butler, tra le figure più contestate e fraintese nel contesto filosofico odierno, pone al suo centro le tematiche nodali del genere, dell’identità, della sessualità e del linguaggio. È il 1990 quando tale riflessione confluisce in Gender Trouble, il testo in cui Butler discute per la prima volta in termini accademici le categorie di uomo e di donna aprendo le riflessioni verso la teoria queer. Come scrive:
Il genere è il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e femminile, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini
La performatività del genere
Oltre il binarismo di genere, Butler propone un concetto nuovo: la performatività attraverso cui il genere si costruisce. Cosa significa?
Il nostro corpo si adegua al genere attraverso l'atto ripetuto che diventa atto normativo. Il genere, dunque, si esprime e si costruisce secondo le sue stesse pratiche regolatrici, è espressione del suo stesso fare e le sue manifestazioni ne sono il risultato: non vi è alcuna identità di genere che non sia agita. Il genere, secondo Butler, esiste solo nella misura in cui viene ripetuto attraverso atti e gesti rituali.
Per questo motivo, nel suo fondamentale saggio del 1990, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, la filosofa statunitense critica l’essenzialismo di genere che ha attribuito caratteristiche universali e innate a donne e a uomini e, in particolare, ha legato l’idea della femminilità alla biologia e alle caratteristiche psicologiche come l’empatia e i comportamenti di sostegno e di cura. Judith Butler afferma, invece, che il genere si costruisce eseguendolo. È la ripetizione a rendere naturale la costruzione del soggetto sessuato, ripete Butler in Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso” (Feltrinelli, 1996).
"Fare e disfare" il genere: verso la teoria queer
Butler scuote le radici del patriarcato perché guarda oltre, invade e abita il campo che sta fuori dalla norma da esso definita: nella raccolta di saggi Fare e disfare il genere (Mimesis, 2014), Butler ritorna e approfondisce il tema della performatività di genere e “il fare e il disfare” di cui parla non si riferisce soltanto al soggetto nell’atto della performance, ma indica la processualità insita nel recitare o meno il ruolo assegnato, in una maniera a volte più consapevole e critica.
VEDI ANCHECultureDecolonizzare lo sguardo per capire il mondo: chi era bell hooks e perché rileggerla oggiAbitare la performance e ribaltare il concetto di genere interpretandolo in modo del tutto soggettivo: in questo modo la filosofa statunitense ha prodotto studi importanti per la riflessione femminista e la teoria queer. Con quest’ultimo termine si indica, in generale, ciò che si pone in maniera "eccentrica", per le definizioni e le pratiche sessuali e sociali, rispetto a quelle imposte dal codice culturale egemone.
Contro le definizioni di genere imposte, Butler favorisce una visione del mondo aperta alla non definizione: la teoria queer, per definizione, si oppone a ogni pretesa d’identità perché la sessualità non è facilmente riassumibile in un gesto di categorizzazione
Questo, sottolinea Butler, non significa cadere nell’astratto ma al, contrario, procedere attraverso il riconoscimento di generi che non sono definiti dal binarismo uomo/donna. Partendo dal ruolo fondamentale del linguaggio, la filosofa afferma:
non si tratta semplicemente di creare un nuovo futuro per generi sessuali che ancora non esistono. I generi che ho in mente esistono da lungo tempo, ma non hanno ancora avuto accesso al linguaggio che governo la realtà.
Nominare per far esistere perché, come afferma Butler, i corpi non sono mai solo nostri ma hanno anche una dimensione pubblica e politica. Partendo dai suoi studi sulle donne agli studi di genere, Judith Butler espande il discorso a tutte le vite e a tutte le esistenze.