Cura: perché dovrebbe essere una competenza di valore anche in azienda
Fondata dall’imprenditrice Riccarda Zezza, Lifeed punta a cambiare la formazione, trasformando gli eventi di vita in momenti di apprendimento.
«La consapevolezza rappresenta il primo motore per far emergere le risorse dei caregiver», spiega Riccarda Zezza, CEO di Lifeed. «Si tratta di una competenza soft che può diventare elemento di business se viene tradotta in cultura, nella percezione del valore di sé per arricchire la cultura aziendale».
Per riuscirci, è necessaria una rivoluzione di prospettiva: i nuovi ruoli della nostra vita non devono combattere tra loro per ritagliarsi uno spazio. Piuttosto, ogni nuovo ruolo può avere un dialogo con le altre cose che siamo. Ciò favorisce la nostra efficacia ed empowerment, perché aumenta la nostra capacità sia di chiedere sia di dare agli altri
Un cambio di paradigma necessario, come emerge dai dati: oltre il 70% delle persone sono caregiver e si prendono cura di una o più persone care (un familiare, un figlio, un compagno). I numeri registrati dall'Osservatorio Vita - Lavoro di Lifeed evidenziano che solo l'8% delle persone si identifica in questo ruolo (9% donne vs 7% uomini). Poca consapevolezza o stigma? Lo spiega a The Wom Martina Borsato, Research & Innovation Analyst di Lifeed.
Il benessere mentale attraverso la cura
81.396 ore è la quantità di vita che passiamo al lavoro ed è inferiore solo al tempo che passiamo dormendo. Eppure solo il 4% degli italiani si sente coinvolto nel proprio lavoro e un lavoratore su quattro, nell’ultimo anno, si è dimesso per preservare la propria salute fisica o mentale, anche senza avere un’altra offerta di lavoro al momento delle dimissioni.
Inoltre, 4 persone su 10 hanno avuto almeno un’assenza nell'ultimo anno per malessere emotivo. Le principali cause sono i ritmi e i carichi di lavoro (al 47%) e la difficoltà di conciliare vita-lavoro (al 29%)
Mediamente in ognuno di noi convivono ogni giorno circa 5 ruoli (4,5 negli uomini e 5,5 nelle donne). Di questi ruoli, la maggioranza sono non lavorativi perché riguardano la famiglia, gli hobby, lo sport, il volontariato, la vita privata. In questi ruoli esprimiamo il 70% dei nostri talenti: uno spreco enorme di risorse per noi, ma anche per le aziende che guardano alle loro persone solo nei loro ruoli professionali.
Se però abbiamo modo di riflettere su ciò che avviene, e di farlo attraverso spunti che guidano verso la rottura di alcuni schemi e l’apertura a nuove prospettive di noi stessi e del mondo, questo processo aumenta il senso di autonomia riportandoci a un senso di controllo e di partecipazione di quanto avviene
La possibilità di narrarsi attraverso le chiavi di lettura del metodo Lifeed, come racconta Borsato, tiene insieme transizioni di vita diverse e ruoli trasversali, abbassando il livello di ansia e di stress e dà un nuovo significato agli eventi.
Trasformare le transizioni di vita e le attività di cura in esperienze di formazione di competenze soft: qual è il metodo attraverso cui Lifeed lo rende possibile e con quali iniziative?
Si chiama Life Based Learning ed è il metodo di apprendimento che permette alle persone di trasferire sul lavoro le competenze soft apprese nella vita quotidiana e viceversa. È stato inventato da Lifeed e ha solide basi scientifiche. Il metodo è stato sperimentato inizialmente da oltre 5.000 madri con il nome di MAAM – Maternity as a Master, con l’obiettivo di far emergere le competenze che le donne allenano diventando madri. Da allora si è esteso a tutti i ruoli e i cambiamenti di vita: diventare genitori, diventare caregiver, o più in generale attraversare un periodo di forte cambiamento personale o professionale. Nella pratica, si traduce in percorsi digitali di autoconsapevolezza rivolti ai lavoratori e alle lavoratrici in azienda.
Oggi lavoriamo con oltre 100 aziende che sono parte del progetto Caring Company, la community di Lifeed che riunisce le aziende che condividono con noi la visione di cura delle persone
Qual è il valore aggiunto di inserire la cura nelle competenze aziendali? Quali i vantaggi per l’impresa e le singole persone?
Le aziende hanno sempre più bisogno di competenze soft, cioè di competenze umane che fanno la differenza nelle relazioni, nel lavoro di team, nella capacità di adattamento e di innovazione, di organizzarsi e di essere efficaci in un contesto in continuo cambiamento. Molte di queste competenze non sono “altrove” e non vanno quindi insegnate alle persone, che già che usano spesso senza esserne consapevoli, fuori dal lavoro. Secondo una ricerca del nostro Osservatorio vita-lavoro, infatti, il 70% delle competenze soft delle persone è utilizzato nella sfera personale e familiare.
Così, le aziende possono trovare proprio nei ruoli di cura dei propri collaboratori quella dotazione di competenze trasversali come empatia, pazienza e ascolto, ma anche capacità organizzative, di gestione dell’imprevisto, di risoluzione dei problemi, di cui ha un bisogno vitale per restare competitiva
Essere caregiver: stigma o poca consapevolezza?
VEDI ANCHELifestyleCosa significa essere un caregiver, e perché quasi sempre è una figura femminileNella maggior parte dei casi però le persone non sono consapevoli del ruolo di cura che ricoprono e di come questo possa essere valorizzato in termini di competenze in azienda. Ciò determina sempre più spesso che non esprimono i loro bisogni e non sanno di poter accedere ai servizi di welfare. Le aziende si ritrovano nella situazione paradossale per cui molti dei servizi di welfare messi a disposizione non vengono fruiti dai lavoratori. I dati dell'Osservatorio Vita - Lavoro di Lifeed lo confermano e fanno emergere anche evidenze di genere: i compiti di cura pesano ancora oggi per lo più sulle spalle delle donne.
Vige il timore che riconoscersi come caregiver possa influire negativamente sulla propria carriera?
L’essere caregiver, cioè prendersi cura di una persona cara anziana o non autosufficiente, è un compito di cura complesso e in molti casi ancora invisibile agli occhi della società e dei datori di lavoro. Alcuni caregiver sono semplicemente inconsapevoli del ruolo di cura che ricoprono, mentre altri hanno paura che comunicarlo sul luogo di lavoro possa influire negativamente sulla propria carriera. Se osserviamo però come si descrivono i partecipanti di quelle aziende che portano avanti un percorso di Lifeed dedicato ai caregiver, allora la percentuale di identificazione con il ruolo di caregiver sale al 24%, un numero molto più vicino alla realtà.
Si tratta di un incremento percentuale del 66% che avviene grazie al riconoscimento del ruolo di cura: sapere chi sei riempie di significato quello che fai e dà un significato all’esperienza che stai vivendo e alla fase di vita che stai attraversando
Esplicitare il proprio ruolo di cura anche a lavoro, così da crearne nuovo valore: si registrano differenze di genere nel maturare questa consapevolezza?
Mediamente ognuno ricopre ogni giorno molteplici ruoli: quello che vediamo dall’Osservatorio è che le donne si descrivono in media con un ruolo in più rispetto agli uomini e sappiamo anche che questo “ruolo in più” femminile è nella maggior parte dei casi un ruolo di cura, come l’essere mamma o caregiver di un genitore anziano.
Questo dato purtroppo conferma un fenomeno già conosciuto: i compiti di cura pesano ancora oggi per lo più sulle spalle delle donne. E in generale, secondo il nostro Osservatorio, la percentuale di donne che si identifica nel ruolo di caregiver è più alta di quella maschile: siamo intorno al 9% contro il 7%.
Il cambio di paradigma attraverso il metodo Lifeed
Per valorizzare il ruolo di caregiver in azienda è necessario un cambiamento culturale capace di costruire un ambiente inclusivo, dove sia percepito il valore delle differenze e tutti (compresi i caregiver) possano far emergere le loro competenze a beneficio dell’azienda.
Ma a che punto siamo a livello di cultura aziendale?
La pandemia ha acceso i riflettori sul tema del benessere e della salute mentale, dopo decenni in cui è passato quasi inosservato. Di pari passo sono aumentate le ricerche che si concentrano su questi aspetti e che evidenziano quanta strada c’è ancora da fare: secondo una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, meno di una persona su 10 sta bene in tutte e tre le dimensioni del benessere (fisico, psicologico e sociale), ma solo il 5% delle aziende lo considera un aspetto problematico.
Questo è solo uno dei tanti dati che tratteggiano una storia in cui il benessere mentale è diventata una necessità per le persone, ma che deve ancora diventare prioritaria anche per le aziende.
In questo senso Lifeed ha creato un percorso ad hoc dedicato alla cura di sé, che sta dando risultati molto positivi: il 71% dei partecipanti riconosce di gestire meglio lo stress e l’82% di sentirsi più consapevole di sé e delle proprie capacità