Una città femminista è possibile? Rivendicare lo spazio in un mondo disegnato da uomini



Un luogo appartiene a chi lo reclama, lo forma e lo plasma fino a farne la sua stessa immagine: così scriveva la giornalista americana Joan Didon, voce di tante donne. Le stesse che, in diverse parti del mondo, stanno tentando di ribattezzare la toponomastica della città. Una battaglia importante che stimola ulteriori riflessioni: in che modo il genere determina il modo di vivere la città?

Sebbene monumenti e toponomastica siano importanti nell’ottica di ridurre la disparità di genere, è in quello che facilita o meno la vita quotidiana delle donne che si riflette il progresso di una città in questo senso. 

Le città in cui viviamo sono disegnate dagli uomini per gli uomini

Nel saggio La città femminista: La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, Leslie Kern afferma proprio questo: gli spazi urbani non considerano le esigenze delle donne e questo accade perché nella loro storia si sono sviluppate intorno a un modello di società capitalistico-patriarcale. Kern, professoressa associata di Geografia e ambiente alla Mount Allison Universit, esamina in particolare Toronto e Londra, metropoli di cui ha avuto diretta esperienza per molto tempo. Ma il modello è applicabile a tutte le grandi città del mondo: metropoli italiane comprese.

Ogni insediamento è un’iscrizione nello spazio delle relazioni sociali all’interno della società che lo ha costruito. Le nostre città sono l’iscrizione in pietra, mattoni, vetro e cemento del patriarcato

Kern spiega come, una volta costruite, le nostre città continuino a plasmare e a influenzare le relazioni sociali, i rapporti di potere, le diseguaglianze: ne sono esempio concreto tutte quelle barriere che ostacolano o impediscono l’uso dello spazio pubblico con il passeggino o con una sedia a rotelle

La loro rimozione sarebbe una questione di rispetto prima di tutto nei confronti delle persone che di questi mezzi hanno bisogno ma inciderebbe positivamente anche su chi più spesso svolge lavoro di cura nei loro confronti, tradizionalmente le donne

«La città femminista – scrive Kern – mette al centro l’assistenza, non perché debba rimanere un lavoro esclusivamente da donne, ma perché la città ha il potenziale per ripartirla in modo più uniforme».

Una città femminista è possibile?

Come si arriva alla città femminista? Rendendo i luoghi di vita comune spazi capaci di accogliere tutte le esistenze. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, sostiene Kern, deve assumere una prospettiva intersezionale:

L’assunto fondamentale è che la città da immaginare non sarà a misura di donna, com’è adesso a misura di uomo, ma a misura di tutti, incluse le minoranze storicamente oppresse

I primi esperimenti di micro-città femministe in Occidente risalgono all’800, con la Hull House di Jane Addams e Elle Gates Starr a Chicago: un social settlement che accoglieva gli immigrati europei secondo principi di mutuo appoggio, inclusione e cooperazione con particolare attenzione alle donne che godevano di minori diritti e opportunità rispetto agli uomini. 

È in questa direzione che, secondo Kern, bisogna andare: collettivizzare gli spazi, combinare aree residenziali, lavorative e servizi essenziali invece di separare i quartieri in cui vivere dai centri amministrativi e commerciali e dai servizi di base

Esperienze simili si sono avute negli anni ‘80 e ‘90 del ‘900 con l’ideazione di quartieri dotati di spazi socializzati e altre se ne stanno facendo. A Vienna, ad esempio, la pianificazione urbana si fonda sulla strategia del gender mainstreaming, il processo che consente di comprendere meglio le cause delle disparità tra donne ed uomini nelle nostre società e di identificare le strategie più adatte a combatterle. Il quartiere di Aspern Seestadt ne è testimonianza concreta: conta 20.000 abitanti ed è progettato dando priorità alle esigenze delle donne. Affinché una città possa definirsi femminista, il primo passo da compiere è comprendere chi è stato escluso dal processo di creazione e sviluppo urbano. È anche necessario superare la sola prospettiva di genere e includere nello sguardo gli altri sistemi di oppressione: razzismo, abilismo, capitalismo, colonialismo, omobitransfobia.

La città femminista non ha bisogno di un progetto per essere reale. Non voglio che una super-pianificatrice femminista demolisca tutto e ricominci da zero. Ma se iniziamo a capire che la città è impostata per sostenere un particolare modo di organizzare la società possiamo iniziare a cercare nuove possibilità

In questo contesto, abbattere le barriere architettoniche che ostacolano la circolazione dei passeggini giova anche a chi si muove in sedia a rotelle. Creare una rete di assistenza all’infanzia aiuta la carriera di una madre della classe media ma permette di trovare un lavoro anche a una donna immigrata senza il sostegno della famiglia e i mezzi economici per accedere a un aiuto esterno. 

Città a misura di ragazze: come sarebbe?

Troppo spesso le donne sperimentano varie forme di violenza e abusi negli spazi pubblici urbani. Come raccontano i dati resi noti da Save the Children, nell’ambito di un’indagine condotta per proprio conto da Ipsos su un campione di adolescenti tra i 14 e i 18 anni in Italia, il 70% delle ragazze dichiara di aver subito molestie e apprezzamenti sessuali in luoghi pubblici.

Pur costituendo una problematica dilagante, aggressioni e molestie continuano ad essere massicciamente trascurate e quasi accettate come parte inevitabile della vita in città.

A rendere vulnerabili le donne in città sono diversi fattori, in primis l’inadeguatezza delle strutture urbane propria di molti agglomerati cittadini: strade poco illuminate, segnaletica inefficiente, cattiva manutenzione degli ambienti pubblici, carenza di servizi igienici. A ciò si aggiungono le criticità diffuse relative alla mobilità: la pervasività del fenomeno delle molestie sui trasporti pubblici rappresenta un forte ostacolo allo sviluppo economico e alla parità di genere perché le donne sono spesso portate a rifiutare offerte di lavoro per l’inquietudine causata dal salire su autobus e metropolitane. Come sarebbe una città a misura di ragazze?

Hanno provato a immaginarla Jazmín Acuña, Lorena Barrios e Jazmín Troche nel reportage a fumetti Una ciudad feminista es posible uscito in Paraguay su "El Surtidor" e poi a dicembre su "Internazionale Kids": per realizzarlo, le autrici hanno preso spunto dal lavoro di architette, giornaliste e mediatrici culturali, e dal libro di Leslie Kern.⁠

Il fumetto è ambientato nel 2030: alcune città hanno messo in atto un piano per adattare gli spazi urbani ai bisogni delle donne, capendo che è possibile cambiare la situazione con politiche pubbliche attente. Incontri pubblici con bambine, studenti, madri, donne incinte, anziane e disabili sono stati organizzati per comprendere le loro priorità e individuare i luoghi in cui si sono sentite più insicure:

le strade più buie sono state illuminate, nelle zone più frequentate ci sono comodi bagni pubblici dove è possibile trovare assorbenti gratuiti, negli autobus ci si sale più facilmente con il passeggino e molte più strade sono intitolate a donne per celebrare le loro battaglie.

Un’utopia? No, se risponderemo alle domande che l’architetta Izaskun Chinchilla rivolge nel suo Manifesto a colleghe, designer, artiste, curatrici e direttrici di museo ma anche alle loro controparti maschili:

Quali sono le pratiche sociali che contribuiscono maggiormente alla qualità della vita nella città? Quali sono quelle esercitate dalle donne e come formano una rete? Perché non sono state valorizzate a livello accademico e istituzionale? Come possiamo progettare l’ambiente costruito in modo tale che questa rete di pratiche contribuisca ancora di più alla nostra qualità della vita?

Interrogativi che, in modo concreto e diretto, puntano a costruire e promuovere un “capitale femminile” nelle città e farne "luoghi per donne": sicuri, inclusivi, accoglienti.

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